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Agli Oscar un ‘Miglior Film’ più inclusivo

Alberto Mutignani Posted On 10 Settembre 2020
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Novità agli Oscar: dall’edizione del 2024, l’Academy assegnerà il premio di ‘Miglior film’ a quelle pellicole che rispetteranno almeno due dei nuovi parametri imposti da un regolamento più ‘inclusivo‘.

In sintesi – è una lista molto lunga – si tratta di quattro modelli standard (rappresentazione e temi, leadership creativa, opportunità d’accesso al settore, presenza nella rappresentanza marketing di minoranze etniche o razziali) che stabiliscono i criteri base perché un film possa concorrere alla categoria più ambita della premiazione.

La polemica nasce facilmente, soprattutto se il regolamento lo si legge solo a metà. Nasce anche e soprattutto perché, al di fuori del discorso sul politicamente corretto, l’Oscar è la cerimonia cinematografica più seguita al mondo, coinvolge tutte le fasce d’età e anche un pubblico inesperto. È come Sanremo, ma visto in tutto il mondo e con celebrità note. Francamente, tra chi difende ciecamente questa scelta e chi la attacca per partito preso, verrebbe da prendere una terza via: un certo menefreghismo.

Leggi anche: Con il cinema si possono salvare i territori, parola di Sergio Rubini

Prima di tutto perché, lo ripetiamo, a leggere bene il nuovo regolamento la situazione non è così drammatica come si vorrebbe far credere. Sono parametri molto elastici, che favoriscono l’inclusione – finora tutti i film candidati, da sempre, hanno rispettato almeno uno di questi parametri, basta mettere un messicano con lo strabismo di venere come assistente del fonico.

È una soluzione deplorevole per il sottotesto morboso che nasconde, ma in fin dei conti stiamo parlando della premiazione più commerciale e politicizzata della storia del cinema. Un po’, ricollegandomi a questo primo punto, perché gli Oscar sono carne da macello per blogger e tifoserie. Nessuna persona interessata al cinema, a meno che non si voglia coinvolgere un recensore di YouTube, segue gli Oscar con interesse.

I premi che contano sono altri, inutile girarci attorno. Una cerimonia che ha premiato “Il Paziente Inglese” e che se l’è sentita di dare, l’anno scorso, ogni premio possibile a “Parasite” – un film molto bello, ma premiato per le ragioni sbagliate – non merita particolari attenzioni, ha una leggerezza quasi ludica: si dà una statuina sulla base di correnti passeggere, si cavalcano mode, tendenze, si cerca un contenuto sociale che – lo si diceva nello speciale su Lucio Battisti – è sintomatico di un’industria che ha perso la bussola della semplicità e non conosce grazia, solo pretesti commerciali.

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Ancor più adesso, quando le cose non cambiano, nella pratica, ma formalmente vengono messe per iscritto: si decide cioè di canonizzare una cosa che andrebbe lasciata al buon senso (se vogliamo chiamarlo così) di chi produce e gira il film.

Il risultato è un cinema di serie A, inclusivo, e un cinema di serie B, potenzialmente non inclusivo – è difficile che mancare tutti gli standard, ma se dovesse succedere? La base è un non meglio giustificato senso di inclusività, che è un po’ come quell’idea bizzarra di certe catene, che ti premiano se fai la differenziata. E perché? Perché è un sacco bello, love love love

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