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“Non odiare”, i limiti di un’opera prima senza idee

Alberto Mutignani Posted On 22 Settembre 2020
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Parlavamo la scorsa volta di Charlie Kaufman e del suo labirinto sentimentale. Guardando pellicole di quel livello, viene spesso da chiedersi quale sia il vero, grande limite del cinema italiano e perché un film come “Sto pensando di finirla qui” possiamo aspettarcelo solo dall’estero. Forse è vero che questo paese, quando non produce commedie per famiglie, si fossilizza sul dramma della criminalità organizzata.

Le realtà periferiche sono diventate il teatro di quasi tutti i set italiani, e se prima erano un fenomeno da cinema underground, ora questa odissea tra eco-mostri e delinquenza giovanile affascina anche le grandi firme e diventa un fenomeno prima italiano, poi internazionale. Dobbiamo molto a “Gomorra – La serie”, se l’Italia è riuscita a esportare un marchio di successo fuori dai confini di casa nostra, ma questo è anche il macigno che oggi ci condanna a raccontare una versione macchiettistica della realtà, con la voglia di essere un po’ documentario, un po’ dramma, un po’ parabole delle facili emozioni – il cinema dei D’Innocenzo non è altro che questo.

“Non odiare”, opera prima di Mauro Mancini, arriva a Venezia alla Settimana della Critica senza nessuna urgenza cronistica. Non è, come si potrebbe pensare, la periferia truce dei bassifondi romani alle prese con sparatorie a bordo di vecchi scooter. Il film di Mancini, con protagonisti Alessandro Gassman e Sara Serraiocco, assomiglia più a un tentativo di emulazione del bellissimo “American History “, che ci regalò la miglior interpretazione di Edward Norton. Solo che qui non c’è nessun Norton, ma la faccia statica, perennemente compressa di Gassman, che nei drammi cerca di impostarsi come faceva il padre, e sembra lessato e stanco, senza carisma.

La storia è quella antica del perdono impossibile: Gassman è un chirurgo di origini ebraiche, che soccorre un morente padre di famiglia durante un incidente in auto. Scopre che è nazista da una svastica tatuata sul petto, e decide di lasciarlo morire. Poi, preso dai sensi di colpa, assume la figlia dell’uomo (Sara Serraiocco) come domestica per una buona paga, ma il fratello di lei, fervente nazista, lo minaccia: “mia sorella non lavora per quelli come te”. Da qui in poi, la trama non decollerà mai.

Un’idea potenzialmente buona, con premesse quantomeno originali per il nulla cosmico in cui viaggia il cinema italiano a schiena dritta, viene appiattita da una regia scialba, per non dire inesistente, una sceneggiatura che sceglie i silenzi al dialogo, perché quando c’è mostra una grave carenza di inventiva, e un intreccio lineare, asciutto. Sarebbe stato bene in esclusiva per la televisione, al cinema è ben più di una semplice occasione sprecata. Accogliere con così tanti entusiasmi un film che perde la bussola dopo i minuti introduttivi è sintomatico dello stato di salute – gravissimo – in cui riversa il cinema italiano.

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