“Le coniugazioni del potere”, l’intervista all’autrice e giornalista Daniela Tagliafico
È uscito lo scorso anno il romanzo di esordio della giornalista Daniela Tagliafico, “Le coniugazioni del potere“. Entrata in Rai nel 1979, la giornalista si è occupata per anni di politica estera e politica interna nella redazione del Tg1, diventandone vicedirettrice. Ha diretto, inoltre, dagli inizi degli anni Duemila la struttura Rai Quirinale, nella quale è rimasta per 7 anni.
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In occasione della presentazione del romanzo, abbiamo avuto modo di intervistarla. Estremamente disponibile, gentile e soprattutto umile, qualità non scontata, Daniela Tagliafico ci ha raccontato la sua esperienza inerente al passaggio dalla scrittura giornalistica alla stesura di un romanzo. Tipi di scrittura, certamente, molto diversi. Ci ha raccontato quanto si cela di personale dietro ai due personaggi protagonisti di “Le coniugazioni del potere“, i quali si trovano a vivere una profonda crisi di valori, a seguito della pensione.
Notorietà, reputazione, senso di potere. Cosa può scattare nella mente di una persona abituata da anni a vivere sotto i riflettori, quando improvvisamente questi si spengono? La scrittrice, racconta questa condizione, non rara, dal punto di vista di due personaggi, i quali hanno avuto tra le mani un cospicuo potere nel corso della propria carriera lavorativa. Ma la pensione, come spiega Daniela Tagliafico, a prescindere dal lavoro che una persona abbia svolto nella vita, porta ad una sorta di invisibilità e di smarrimento. Nel peggiore dei casi, ad una vera e propria crisi di astinenza.
L’INTERVISTA
Partiamo con una domanda tecnica inerente al genere di scrittura. Come ha vissuto il passaggio dalla scrittura giornalistica al romanzo? Ha seguito degli step?
Ti posso dire questo, non bisogna avere la presunzione che se fai la giornalista puoi automaticamente scrivere un romanzo. Come hai notato, sono due modi di scrittura molto diversi. Ho seguito dei corsi di scrittura, ho studiato, mi sono documentata e ho fatto corsi. Fondamentalmente ho capito, e qui vado a dire una cosa un po’ autocritica nei confronti della mia categoria, che i giornalisti quando vanno a scrivere un romanzo hanno la sindrome di fare vedere che scrivono bene. Usano, quindi, parole molto forbite, tanti aggettivi e tentano di rendere molto ricco il linguaggio. In realtà, il linguaggio va semplificato. Ci ho messo parecchio ad arrivare a ciò, ho proprio spurgato, ho lasciato decantare e ho cominciato a togliere aggettivi e ridondanze. Avendo fatto televisione ed essendo un’appassionata di cinema, questa è una lezione, appunto, di cinema. Non bisogna mai innamorarsi di una inquadratura quando monti qualcosa. Se ti innamori perdi l’obiettività, devi avere il coraggio di tagliare. Con questo, sia ben chiaro, non sono affatto sicura che la mia scrittura sia buona e funzioni, lo dico senza presunzione.
Cosa l’ha spinta a scrivere “Le coniugazioni del potere” e perché proprio in questo momento? Ci sono stati dei fattori determinanti?
Un fattore determinante è il fatto che sono andata in pensione, quindi questo meccanismo ho imparato a conoscerlo bene. Mi sono divertita, allora, ad estremizzare la mia esperienza, costruendo questi due personaggi di fantasia, che non sono, però, lontanissimi da tante persone che ho conosciuto. Ho preso qua e là e ho fatto un bel cocktail. Ho creato questi personaggi che anche loro devono fare i conti con la pensione. Nel loro caso, però, la pensione vuol dire perdita di potere, questa è la cosa fondamentale. Io non l’ho vissuta come un’esperienza così drammatica, anche perché non avevo certo il potere che avevano loro. Chiunque vada in pensione però, a prescindere che tu abbia lavorato nei grandi palazzi della politica, della televisione, o che tu sia stato dipendente di un’azienda o cassiere ad un supermercato, diventi invisibile. Perché? Perché si esce fuori dalla società, gli amici ti dicono “oh beato te, adesso avrai un sacco di tempo libero”. A chi va in pensione manca tutto quel mondo che lo ha accompagnato per 30, 40 o 50 anni. C’è quindi una sorta di perdita di identità, di lutto. Se poi, tutto questo che è fisiologico secondo me, capita a due persone come i personaggi del libro, che hanno avuto tantissimo potere nella vita, in particolare lei, abbiamo proprio una crisi di astinenza. Molto violenta, direi.
Quindi, c’è un po’ della sua esperienza personale tra le pagine del romanzo?
Si, però grazie a Dio, io sono un persona molto più normale. Però, il meccanismo dell’andare in pensione, quando hai avuto un ruolo di una certa importanza, questo l’ho conosciuto. Sai, quando il telefono non ti squilla più, non sei più cercato, quando prima avevi la segreteria telefonica intasata e poi niente, non ti chiama più nessuno. Se uno non è forte, e non riesce a capire che la vita è altro, ma invece ha la sindrome da palcoscenico, diventa problematico accettarlo. Questo è quello che io mi sono divertita a raccontare, seppur con estremizzazioni.
Se dovesse esprimere in poche parole il messaggio che le piacerebbe arrivasse a chi legge il libro, cosa direbbe?
Intanto sarei contenta che chi mi legge arrivi alla fine del libro con interesse. Di questo sarei già molto contenta. Non ho un particolare messaggio devo dire, penso sia un po’ presuntuoso lanciare messaggi. Posso però dire questo, che si allaccia a ciò che ci siamo dette, sarebbe sbagliato vederlo come una specie di confessione che ha a che fare con la mia vita. Mi piacerebbe che chiunque lo legga trovasse, dietro a queste esasperazioni dei personaggi, qualcosa di sé. Sarei felice se ci fossero dei riscontri di aderenza alla realtà. Ti posso dire che mi interessava molto, avendo avuto io stessa un’esperienza di 7 anni come direttrice di Rai Quirinale, raccontare che cos’è il cerimoniale. Raccontarne anche la parte seria e importante. Il cerimoniale non è composto solo da queste figure che noi vediamo che accompagnano presidenti, fanno le presentazioni o che si occupano delle disposizioni dei personaggi famosi. Il cerimoniale sono, innanzitutto, i valori che fondano le istituzioni. Vuol dire anche la devozione alla bandiera, all’inno nazionale. Riconoscersi nei valori di una nazione che ha dei simboli, anche questi sono elementi di cerimoniale. Mi piaceva anche ragionare su due cose, i personaggi vanno in pensione, sono in crisi di astinenza di due valori importanti ma diversi. Lui della reputazione, quella che tu ti costruisci in una vita, quella che abbiamo studiato anche nei greci classici, cioè i valori, l’essere riconosciuti nella società per un valore che possiedi. La notorietà, che è invece il valore associato a lei, è molto più superficiale. Quando non ti salutano più, perché se esci dal video sei finita, non hai più identità. Le regole drammatiche della televisione le conosciamo tutti. Sono due valori diversi, a volte si sovrappongono, però i due hanno a che fare anche con questa perdita.
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