Favolacce è un film “molto italiano”

La terra dell’abbastanza” era una prima prova un po’ caciottara. Una trama esile e già sentita, personaggi mal scritti, un brutto finale da cinema delle buone intenzioni. Tanto è bastato, comunque, per dare il via a quella lunga serie di abbracci che ha coinvolto la critica specializzata italiana e gli stessi fratelli D’Innocenzo, registi dell’opera, da un anno a lavoro su una sceneggiatura con Paul Thomas Anderson e recentemente tornati nelle sale (in streaming, ma abbiamo già detto che è la stessa cosa) con il loro nuovo film: “Favolacce”.

Trionfo alla Berlinale e ai Nastri di quest’anno, dove si è accaparrato, tra le altre cose, la statuetta per la miglior sceneggiatura originale. Dimenticato il Tolo Tolo di Zalone – il miglior film italiano di quest’anno – colpevole di essere una commedia senza personaggi bidimensionali, il cinema nostrano segue la via della cattiveria esibita. Il film dei D’Innocenzo piace perché è duro, perché è sporco, perché “La sensualità percorre tutte le scene”, come ha scritto la Mancuso sul Foglio. Insomma, fa vedere tette e culi, come Lars Von Trier.

Certo che registi come loro non ce ne sono in Italia, e questo potrebbe attirare la curiosità e forse l’attenzione di un certo pubblico narcisista, la famosa intellighenzia che vuole la grande parabola della volgarità periferica e l’occhio vispo dei registi crudi e arrabbiati, senza badare allo stato di salute della sceneggiatura o della recitazione, con un occhio bovino verso la morale. Li perdoniamo perché il film si chiama “Favolacce” e forse la morale è proprio l’escamotage che i registi e i loro aficionados della prima ora cercavano per non dover giustificare scelte di scrittura discutibili, a voler essere diplomatici. Certo è anche che all’estero, di registi così, ce ne sono eccome: Haneke, Solondz, i fratelli Coen.

Il caso D’Innocenzo, quindi, più che un trionfo del risveglio Italiano, sembra l’ennesima coccola nostrana al cinema che fa quel che può, che copia, ricalca e spera – ed è sempre così – che in un mare di fessi i mediocri sembrino dei giganti e che nessuno, qui da noi, conosca i registi suddetti. Quando Adelphi scelse di pubblicare le fetecchie rurali di Omar Di Monopoli, sperando che nessuno in Italia avesse mai letto Faulkner o McCarthy, il meccanismo fu proprio lo stesso, con lo stesso risultato vincente.

Poco importano le scelte di casting – un Elio Germano completamente fuori ruolo, Max Tortora narratore esterno inespressivo – e nemmeno conta una sceneggiatura claudicante: i genitori parlano in romanesco, i figli un italiano accademico. L’importante è il cinema duro. In coppia con quel Guadagnino che si diverte a fare il Dolan del Cremasco, i D’Innocenzo – che non perdono occasione per posare in modalità busti del pincio – portano avanti la nuova formula vincente del cinema italiano: copiare a basso costo, senza idee. Altrove, non la critica ben pagata ma il pubblico dall’amore disinteressato vede già in questo processo una fucina di cineserie tuttalpiù risibili, ma se a voi basta, a noi c’avanza.

“Favolacce”, di Damiano e Fabio D’Innocenzo, in onda lunedì 17 aprile alle 21.15 su Rai5.

Articolo precedenteSuoni Controvento, Brunori Sas si aggiunge al festival
Articolo successivo“In aereo si ma in teatro no”, da Edoardo Siravo l’appello per una maggiore tutela del settore cultura
Pescarese, classe 1998. Unico laureando in lettere a non aver ancora scritto la propria autobiografia. Interessi: le cose frivole, le chiacchiere a vuoto, gli scrittori comodi, il cinema popolare, i videogiochi. In un'altra vita è stato un discreto detective privato.