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Borat 2, il ritorno (fiacco) di Sacha Baron Cohen

Alberto Mutignani Posted On 24 Ottobre 2020
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È passato del tempo dal primo incredibile, divertentissimo e fallimentare viaggio negli Stati Uniti di Borat Sagdiyev (Sacha Baron Cohen), a beneficio della gloriosa nazione del Kazakhistan. Condannato ai lavori forzati nella sua terra d’origine, Borat riceve una nuova missione, direzione Casa Bianca, per consegnare a Mike Pence, vicepresidente di (Mc)Donald Trump, un primate come segno di rispetto del Kazakhistan verso gli Stati Uniti, e stringere un accordo di alleanza. Se fallirà, sarà condannato a morte. Da qui prende le mosse Borat 2, il film diretto da Jason Woliner, uscito in esclusiva su Amazon Prime Video a pochi giorni dalle elezioni presidenziali in America.

Le sorprese, per Borat, arrivano dai primi minuti del film: il suo vecchio collaboratore è diventato una squallida poltrona nell’ufficio del presidente kazako, scopre suo malgrado di avere una figlia quindicenne (Maria Bakalova), impertinente e cresciuta come una selvaggia, ed è diventato una celebrità negli Stati Uniti, dove viene fermato dai passanti per una foto o un autografo.

Ecco perché la prima cosa che Borat 2 ci mette in mostra è il marcatissimo abuso di travestimenti, che diventano sempre più eccessivi, macchiettistici, e in definitiva poco divertenti e meno dirompenti di quanto si sperasse – eccezione fatta per un’esilarante sequenza in sinagoga. La giovane Maria Bakalova regge sulle spalle molti dei momenti della seconda parte del film, e la presenza di un contrappeso femminile, che è il pretesto per raccontare il femminismo e l’emancipazione del mondo di oggi, è un elemento aggiunto che svecchia di molto la comicità a volte troppo datata di Cohen, nonostante il tentativo di proporre qualcosa di nuovo e diverso.

Il Borat di questo secondo capitolo è lo stesso personaggio folle e politicamente scorretto del primo film, ma in un mondo che, da quell’apparentemente lontano 2006, è cambiato in maniera velocissima e ci ha mostrato realtà decisamente più complessa – sparatorie nelle sinagoghe, una pandemia globale, il complottismo –, e da ognuna di queste cose Cohen riesce a trarre uno spunto inaspettatamente comico, dissacrante, che funziona nonostante l’eccessiva linearità e un’impronta più documentaristica, che tende a annoiare alla lunga.

Sono discrete le sequenze all’interno della dimora dei complottisti, convinti che Hilary Clinton beva il sangue dei bambini, e decisamente meglio è l’intero dialogo all’interno della sinagoga, dove Borat si rifugia intenzionato a suicidarsi (“Non avendo una pistola con cui uccidermi, mi sono chiuso in una sinagoga in attesa della prossima sparatoria di massa”). E nel melenso finale, pieno di retorica e con un noiosissimo scherzo ai danni di Rudy Giuliani, il film abbassa drasticamente un livello già non all’altezza del primo capitolo, sebbene piacevole.

In definitiva è una commedia di alti e bassi, che fa enorme difficoltà nello svecchiarsi da una comicità datata e fastidiosa, che a volte cade nel ridicolo e nella retorica filo-democratica, e che manca di un obiettivo preciso che non sia questa impresa brancaleonesca di documentare il peggio della società, che tutti già conosciamo, ma che trova una sua dimensione più nitida e piacevole fuori dalla dimensione politica, nelle poche sequenze esterne alla linea narrativa principale, dove il film riesce a regalare più di una risata.

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