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“I pugni in tasca”: l’esordio di Marco Bellocchio tra psicosi e brutale follia

Sara Paneccasio Posted On 8 Novembre 2023
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È il 1965 e Marco Bellocchio ha 26 anni, ha studiato arte drammatica, poi cinema a Roma e Londra. È in Inghilterra, lontano da casa, decisamente restio alle gioie edonistiche dello Swinging London dell’epoca, che scrive la furiosa sceneggiatura de I pugni in tasca, una dissacrante denuncia contro la famiglia.

L’opera prima del regista buca lo schermo per la sua brutalità, l’espressionismo nel suo bianco e nero, la musica di Ennio Morricone. Marco Bellocchio condanna la famiglia che fa impazzire, ma ancor più la follia fascista e le inclinazioni eugenetiche del suo personaggio – temi che ritroveremo in Vincere (2009).

Oggi, il film non ha perso nulla del suo potere anzi ci appare come una premonizione dei grandi temi che Bellocchio continuerà a portare in scena: un’alienazione causata da famiglia, ideologia, religione e non solo contro cui si accaniscono tutte le sue opere.

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I pugni in tasca narra la storia di una famiglia borghese malata, composta da una madre cieca e quattro fratelli: Ale, ribelle puerile e nichilista sul filo della psicosi; Giulia, legata al fratello da un rapporto morboso; Leone affetto da un grave ritardo e Augusto, l’unico normale con un lavoro e una fidanzata.

Rompendo con i codici e la morale ereditati dal Neorealismo, Bellocchio affronta la realtà con violenza e lucidità: questa famiglia non può essere eletta a simbolo della borghesia ma anzi appare come una progressiva decantazione degli elementi sociali e collettivi.

Questa storia macabra ci viene raccontata dal punto di vista del personaggio di Ale (interpretato da un inquietante Lou Castel), che progetta lo sterminio della famiglia per liberare Augusto da tutti questi pesi che gli impediscono di sposare la sua bella fidanzata borghese Lucia, di stabilirsi in città, di vivere in conformità con la sua classe, i suoi amici, le sue aspirazioni.

Il progetto prende veramente forma nel momento in cui Ale butta la madre da un burrone.

Prosegue la propria opera di igiene familiare annegando Leone nella vasca. Giulia cerca di soccorrere il fratello ma cade dalle scale, rischiando di restare paralizzata. Subito dopo i funerali di Leone, Ale ha una crisi epilettica e muore tra le convulsioni, invocando la sorella che non può (o non vuole) salvarlo.

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Nei capolavori della Nouvelle Vague si tenta spesso di trovare un’identificazione del giovane regista nel protagonista quasi suo coetaneo – come accade in Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci -. Ne I pugni in tasca la questione è più delicata: il regista e il suo protagonista condividono di base solo l’impulso vitalistico ma Bellocchio impedisce un’immedesimazione del regista o dello spettatore offrendoci una torsione paradossale e grottesca di Ale e del suo nichilismo.

Gli atteggiamenti di Ale sono sempre eccessivi, infantili o velleitari: progetta un allevamento di cincillà, va con una prostituta frequentata da Augusto, prova a sedurne la fidanzata frequenta con esiti disastrosi una festa dei coetanei bene. Dunque il regista non si identifica con il suo protagonista ma ne è insieme attratto e respinto.

Più che il regista, è lo stesso film ad immedesimarsi con il particolarissimo personaggio di Ale: I pugni in tasca racconta personalità psicotiche con uno stile nevrotico, oscillando continuamente tra il cinema di poesia e quello di prosa di cui parlava Pasolini. Tra soggettive libere indirette e sguardi in camera, tra stasi e frenesia, tra uso frequente della macchina a mano e raccordi spiazzanti, lo stile del film sembra mimare le convulsioni di Ale.

Inoltre Bellocchio mette magistralmente in scena lo spazio della casa (la vera casa materna del regista): questi ritratti, queste porte a vetri attraverso le quali si ascolta, questi specchi dove ognuno viene a guardare il suo doppio sono altrettante immagini, false trasparenze, che proiettano sull’intera casa la trappola delle torbide coscienze che essa ospita.

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Rifiutato agli eventi cinematografici di Mosca per «offesa alle madri» e privato del Nastro d’Argento, il film di Bellocchio ricevette tuttavia un’accoglienza entusiasta da parte della stampa.

Presentato alla Semaine des Cahiers du Cinéma nel 1966, I pugni in tasca è una vera rivelazione per chi lo definisce un film «dalla bellezza folgorante» (Combat), dotato «di qualità eccezionali», un vero «colpo di grazia» (Europe), un «film-fenomeno di una qualità rara» (Le Nouvel Observateur), di un «giovane prodigio» (Image et Son) che ha «il cinema nel sangue» (Cinéma).

Oggi che il grande cineasta compie 84 anni e vanta i più grandi premi cinematografici, possiamo confermare che la stampa francese a un passo dai moti sessantottini ci aveva visto lungo.

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