Un’isola, un ponte, una scelta: ecco Il Ponte Vermiglio di Valeria Ricotti [Intervista]

Un’isola remota e un ponte misterioso tra mente e spirito segnano il perimetro del libro Il Ponte Vermiglio, primo romanzo di Valeria Ricotti, uscito lo scorso 30 aprile in formato cartaceo, ebook e audiolibro. Un debutto narrativo che segna una nuova tappa nel percorso di una scienziata italiana con base a Londra e un curriculum internazionale nel campo della neurologia pediatrica, delle terapie geniche e dell’intelligenza artificiale applicata alla medicina.
L’autrice è originaria dell’Aquila e lo scorso marzo è stata premiata al Senato con il riconoscimento “Storie di italiane eccellenti”, promosso dalla senatrice Cinzia Pellegrino per valorizzare il merito femminile in tutte le sue forme. Il romanzo segue il viaggio di Andreas, biologo in crisi personale e professionale, che si ritrova su un’isola misteriosa insieme a Carol, enigmatica ricercatrice a capo di un progetto radicale. In questo contesto fuori dal tempo, il protagonista incontra scienziati visionari e pratiche filosofiche capaci di scuotere certezze consolidate. Il ponte vermiglio diventa così metafora di una transizione profonda.
“Viviamo un’epoca in cui la tecnologia può cambiarci profondamente — spiega Ricotti — ma la vera rivoluzione parte da dentro: il potere autentico nasce dalla consapevolezza, non dal controllo”. Il libro è stato presentato ufficialmente al Salone del Libro di Torino 2025. Medico e imprenditrice, Ricotti è fondatrice di due startup biotech e autrice di ricerche pubblicate su riviste di riferimento come Nature Medicine, dove ha raccontato come tecnologie ispirate al cinema (come quelle di Avatar) possano rivoluzionare la neurologia pediatrica.
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Nonostante viva da anni a Londra, l’autrice rivendica con orgoglio le sue radici abruzzesi. Nel 2024 ha fondato la casa editrice Shironeko, con sede a Londra, dedicata a progetti editoriali liberi e visionari: come la canzone originale Dragon’s Eyes di Naomi Banks, che accompagna il romanzo, in coproduzione con il celebre artista jazz britannico Guy Barker.

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Cosa l’ha spinta a scrivere Il Ponte Vermiglio? È un romanzo nato da un’urgenza personale o da un’idea coltivata nel tempo?
È entrambe le cose.
Come spesso accade con i progetti più autentici, Il Ponte Vermiglio è nato da un’idea coltivata nel tempo, ma anche da un’urgenza improvvisa — quella di dare voce a pensieri e visioni che non trovavano spazio altrove. È un libro che affonda le radici in vent’anni di esperienza e riflessione, in concetti che mi accompagnano da sempre ma che non potevano essere espressi con gli strumenti tradizionali del mio contesto professionale.
Pur essendo profondamente interconnesso con la mia attività scientifica e clinica, Il Ponte Vermiglio parla un linguaggio diverso: quello della narrazione. Ho accumulato idee, intuizioni, osservazioni sul senso della malattia, del tempo, dell’identità, della coscienza… e un giorno, quasi senza preavviso, quei concetti hanno trovato i loro personaggi.
La scrittura è stata il modo più naturale — forse l’unico possibile — per integrarli in una forma viva e accessibile.
È un romanzo, ma anche un contenitore simbolico. Una soglia. Un passaggio.
Il protagonista, Andreas, attraversa una crisi esistenziale e professionale. C’è qualcosa di autobiografico in lui o è un personaggio completamente inventato?
In Andreas non c’è tanto la mia autobiografia personale, quanto quella del genere umano.
Tutti attraversiamo momenti di crisi — me compresa. Che si tratti di una frattura professionale, di un vuoto affettivo, di una perdita di senso… prima o poi, nella vita, ci ritroviamo disorientati, a chiederci chi siamo diventati e dove stiamo andando. Nel romanzo, ovviamente, tutto è un po’ più amplificato: Andreas arriva a un vero e proprio collasso, come spesso accade nei romanzi e nei film. Ma non perché io creda che si debba toccare sempre il fondo per risalire — semplicemente, la narrazione ha bisogno di intensità per farci sentire davvero qualcosa.
Penso però che Andreas sia un personaggio in cui molti possano ritrovarsi. È la voce di chi ha fatto “tutto come si doveva”, rispettando aspettative, percorsi, ruoli — e si ritrova, un giorno, a sentire che qualcosa di essenziale è andato perduto. È la storia di una frattura, ma anche del desiderio — profondissimo — di tornare a casa. Dentro di sé.
Carol, la donna misteriosa che guida Andreas verso un’isola remota, sembra incarnare un archetipo: musa, guida spirituale, sfida. Chi o cosa rappresenta per lei?
Carol è, senza dubbio, una guida.
In Il Ponte Vermiglio prende la forma del femminile, ma l’archetipo che rappresenta è universale: potrebbe incarnarsi anche in un uomo, o in qualunque altra figura capace di portare trasformazione. È una presenza che irrompe nella vita di Andreas proprio quando lui si trova sull’orlo di un cambiamento, e lo accompagna oltre i suoi vecchi schemi.
È una donna che ha scelto di non lasciare che il proprio dolore fosse vano. Ha attraversato la sua crisi — forse più di una — e ne ha tratto una forza nuova, una lucidità magnetica. Non è perfetta né risolta, ma ha raggiunto una consapevolezza profonda dei propri poteri, e proprio per questo può accompagnare chi sta per iniziare il proprio viaggio.
Carol non solo affascina Andreas: lo mette in crisi. Scardina i suoi punti di riferimento, lo spinge oltre i limiti rassicuranti delle sue convinzioni. Ma non lo fa per confonderlo: lo fa per liberarlo. In sintesi, è una forza della natura che irrompe nella vita del protagonista per permettere una trasformazione radicale, un cambio di sguardo sul mondo.
Spero che anche il lettore, attraversando le pagine, possa sentire il suo potere.
Perché Carol non è solo un personaggio: è un simbolo. È l’invito che arriva nella vita di ciascuno quando è tempo di andare oltre.
Scrive che “Il Ponte Vermiglio è un simbolo dell’incontro tra scienza e spiritualità”. È questo il filo conduttore del romanzo?
Sì, Ma non solo.
Il Ponte Vermiglio è certamente un incontro tra scienza e spiritualità — tra il bisogno di capire e il bisogno di sentire. Ma è anche il filo che unisce il mondo visibile a quello invisibile.
Il ponte tra chi siamo e chi possiamo diventare.
Nel romanzo, il mondo visibile — fatto di medicina, numeri e rigore — si intreccia con quello invisibile: fatto di emozioni, memorie, impulsi.
È da questo incontro che nasce il vero movimento. Non sono due mondi in conflitto. Sono due metà della stessa verità. Il ponte serve proprio a questo: a ricordarci che non dobbiamo scegliere, ma integrare.
Ogni pagina è un invito a rallentare, a tornare a sentire. A ricordare chi siamo veramente, da dove veniamo, e qual è — o potrebbe essere — il nostro posto nel mondo.
Nel caso del mio gatto, per esempio, pare sia sul divano…
Come cambia, per lei, la scrittura scientifica rispetto a quella narrativa? Quali libertà o difficoltà ha incontrato nel passare da una forma all’altra?
La scrittura scientifica ha delle regole ben precise, e un rigore che va rispettato. Non che quella narrativa ne sia priva — anche la letteratura ha le sue leggi — ma sono decisamente meno stringenti. Diciamo che… non ci sono draghi che entrano in un esperimento scientifico!
Con la narrazione si può dare spazio a quegli aspetti meno governati dalla logica: l’intuizione, l’immaginazione, la dimensione simbolica. È un mondo che, in un certo senso, si crea da solo man mano che lo scrivi.
Detto ciò, anche nella scienza ho sempre amato raccontare storie. Presentare i dati come una narrazione coerente, rendere leggibile l’evidenza — senza svuotarla di umanità. In fondo, ogni scoperta è una nuova storia: un prima e un dopo, un’intuizione che cambia il mondo.
Poi c’è stato un momento divertente, che ricordo con affetto: durante l’editing de Il Ponte Vermiglio, la mia editor Paola Coltellacci ha dovuto tagliare intere pagine che lei ha definito “troppo scientifiche per essere un romanzo”.
Abbiamo riso molto. E lì ho capito che, dopo tanti anni immersa nella scrittura accademica, avevo finito per contaminare — almeno un po’ — anche la mia voce narrativa.
Ma ho posto rimedio.
Lei è fondatrice e Ceo di due startup biotech. Cosa l’ha spinta a lanciarsi in questa doppia avventura imprenditoriale e quali sono oggi le sfide principali?
Per me, l’imprenditorialità non è un cambio di direzione rispetto alla clinica o alla ricerca: è un punto di convergenza. Le startup rappresentano lo spazio in cui posso finalmente unire tutte le mie competenze: neurologia, ricerca, medicina traslazionale… e trasformarle in soluzioni concrete, che arrivino al paziente.
Fare impresa significa accelerare il passaggio tra laboratorio e vita reale, superando quelle lentezze burocratiche che spesso accadono all’interno dell’università e rallentano ciò che potrebbe già offrire una soluzione.
Quanto al “perché due”… è successo. Mi sono trovata con due progetti appassionanti, nati da bisogni diversi ma ugualmente urgenti. E non ho avuto il coraggio di sacrificarne uno per l’altro.
C’è però un aspetto che oggi mi colpisce con particolare forza: le attività su cui sto lavorando oggi — ancora in fase stealth — risuonano profondamente con i temi del Ponte Vermiglio.
Eppure l’ho scritto durante la pandemia, quando mi occupavo principalmente di ricerca genetica applicata alle cardiomiopatie: un settore diverso da quelli trattati nel libro.
È come se il romanzo avesse anticipato la realtà. Come se, scrivendo, avessi già intuito la direzione che la mia vita stava per prendere.
O forse — come spesso accade con la scrittura vera — ho semplicemente dato voce a qualcosa che dentro di me era già in cammino.
La sfida più grande? Mantenere integra la visione in un mondo dove spesso prevalgono logiche di profitto. E continuare a ricordare, ogni giorno, che dietro ogni molecola c’è un paziente (a volte un’intera famiglia) che aspetta.
Ci racconta qualcosa del progetto che ha portato alle pagine di Nature Medicine, dove ha applicato tecnologie cinematografiche alla neurologia? Com’è nata l’idea di usare strumenti ispirati ad Avatar in ambito medico?
Sviluppare nuovi farmaci è un processo complesso: richiede tempo, risorse economiche ingenti e, soprattutto, strumenti affidabili per valutare se una terapia stia davvero funzionando. Nel campo delle malattie rare e neurodegenerative, queste difficoltà si amplificano ulteriormente. Il vero nodo? La carenza metodologie oggettive e tempestive per misurare in modo preciso i benefici di un trattamento sperimentale. Questo rappresenta un freno enorme per la ricerca, ritardando l’arrivo di terapie potenzialmente salvavita nelle mani di chi ne ha più bisogno.
Nel nostro caso, lavoriamo su terapie geniche: trattamenti all’avanguardia, sofisticati e altamente innovativi. Eppure, per valutarne gli effetti, ci siamo spesso trovati a usare strumenti soggettivi e rudimentali — test che non rendono giustizia alla complessità delle terapie stesse.
Da qui è nata la necessità di cambiare approccio. Applicare le tecnologie di Avatar è stata una risposta concreta a questa esigenza. Abbiamo utilizzato sofisticati body trackers — simili a quelli usati nell’industria cinematografica — per analizzare il movimento dei pazienti in tre dimensioni, in modo oggettivo e ad altissima risoluzione. Questo ci ha permesso non solo di caratterizzare la malattia a livello diagnostico, ma anche di prevederne il decorso e quindi di poter applicare questa tecnologia per valutare l’efficacia dei trattamenti in modo rapido e preciso.
E poi i pazienti, soprattutto i bambini, adorano vedere il proprio avatar in movimento. Per loro è un po’ come entrare in un videogioco…
Come vede il rapporto tra ricerca scientifica e impresa? È ancora diffidente, in Europa, o qualcosa sta cambiando?
L’America resta, senza dubbio, un luogo molto dinamico: lì l’interazione tra scienza e impresa è storicamente più fluida, più coraggiosa.
Ma molto sta cambiando anche in Europa… posso dire che qui sta crescendo un dinamismo reale: è stato proprio questo ecosistema, più flessibile e orientato al rischio, che mi ha permesso di costruire due biotech con il solo supporto di investitori privati.
In questo senso, mi sento un punto di intersezione tra mondi diversi. Continuo a collaborare con l’università ad esempio University College London, Imperial College, perché è quasi sempre all’interno dell’Università che nascono molte delle innovazioni più profonde — intuizioni ancora acerbe ma dal potenziale straordinario. Investitori e charities svolgono un ruolo essenziale: sono spesso i primi a credere in queste idee e a sostenerle quando sono ancora in fase iniziale, ad alto rischio e senza garanzie immediate di ritorno. Le case farmaceutiche, poi, hanno la capacità economica e operativa per tradurre questi progetti in terapie disponibili su larga scala. A completare questo ecosistema c’è il dialogo, per me fondamentale, con gli enti regolatori: sono loro che garantiscono che ogni nuovo trattamento sia sicuro, efficace e con benefici reali superiori ai rischi.
Costruire connessioni solide tra questi attori a livello globale — accademia, investitori, charities, industria, regolatori — è ciò che guida il mio lavoro ogni giorno. È lì che la scienza smette di essere teoria e diventa impatto.
Pur vivendo a Londra da molti anni, lei rivendica con orgoglio le sue radici aquilane. In che modo la sua terra d’origine ha influenzato il suo carattere e le sue scelte?
Londra è la città dove sognavo di vivere fin da bambina. Avevo dieci anni quando, per la prima volta, ho sentito che quel mondo cosmopolita, fatto di culture che si intrecciano e visioni che si contaminano e arricchiscono, sarebbe diventato casa. E lo è diventato.
Ma c’è un paradosso sottile che solo chi ha vissuto lontano può comprendere: spesso è proprio andando via dalla propria terra che la si capisce fino in fondo. È nella distanza che affiora la vera essenza delle origini.
L’Abruzzo è una terra che non smette mai di parlarti. È selvaggia, intensa, misteriosa. È una regione profondamente mistica, che viene spesso paragonata al Tibet per la sua spiritualità antica e per il numero sorprendente di monasteri e luoghi sacri. Ma la spiritualità di cui parlo va oltre le religioni: è quel tipo di connessione profonda con la natura e con le forze dell’universo che ti fa sentire parte di qualcosa di più grande. Crescendo lì, ho imparato a rispettare il silenzio, ad ascoltare le stagioni, a riconoscere l’invisibile nei dettagli.
Crescere in Abruzzo mi ha insegnato il valore del silenzio, il ritmo delle stagioni, la presenza dell’invisibile nei dettagli. È lì che si è accesa la mia immaginazione — e con lei il desiderio di raccontare storie. Ma è lì che si è anche radicato il mio legame profondo con la natura: un legame che ancora oggi attraversa ogni mia scelta, ogni visione, ogni parola.
Che si tratti di scienza, di medicina o d’impresa, sento sempre quel respiro antico che viene da lì, e che continua a guidarmi.
Quanto conta, nella sua visione del mondo, l’equilibrio tra razionalità e intuizione, tra scienza e spiritualità?
Per me non esiste una cosa senza il suo opposto. La luce si definisce perché esiste l’ombra. Il silenzio esiste solo in relazione al suono.
E così anche nella vita, nella scienza, nella spiritualità: cerco sempre un equilibrio tra gli opposti, perché l’uno senza l’altro semplicemente non esiste. Nella mia visione del mondo, non si tratta di scegliere tra razionalità e intuizione, tra evidenza e percezione, tra scienza e spiritualità. La vera sfida — e anche la vera bellezza — sta nell’integrarli. Siamo educati a pensare per separazioni, ma l’evoluzione accade quando iniziamo a includere, non a dividere.
Quando comprendiamo che cuore e cervello non sono in opposizione, ma in conversazione. Che una formula e un simbolo possono dire la stessa cosa, in due lingue diverse.
La razionalità mi guida, mi ancora. L’intuizione mi apre e mi orienta. Solo camminando con entrambi riesco a trovare il mio passo.
