Speciale. “Match Point”: la fragilità dell’etica e l’indifferenza del destino nel film di Woody Allen
Quando nel 2005 Woody Allen presentò “Match Point“, molti critici parlarono di rinascita del regista. Era appena uscito da un periodo considerato minore, segnato da commedie brillanti ma meno incisive rispetto ai suoi capolavori precedenti. Con questo film, il regista newyorkese compì un salto netto, quasi teatrale, che lo ridestò agli occhi della critica, anche quella più feroce. Abbandonò la Manhattan intellettuale che aveva fatto da palcoscenico alla maggior parte delle sue opere per trasferirsi in una Londra altoborghese, elegante e spietata. Qui mise in scena non una commedia, ma un dramma intriso di tensione, un thriller psicologico che affonda le radici nella grande letteratura europea.
Allen, cineasta che da sempre dialoga con la filosofia e il romanzo ottocentesco, costruisce un’opera in cui echeggiano Dostoevskij, Dreiser e Maupassant, restituendo al cinema un racconto dove il caso e la colpa si intrecciano fino a dissolvere ogni illusione di giustizia. “Match Point”, da questo punto di vista, è un trattato visivo sulla fragilità dell’etica e sull’indifferenza del destino.
Il simbolo che riassume l’intero film è racchiuso nell’incipit: una pallina da tennis rimbalza sul nastro della rete e resta sospesa per un istante che sembra eterno. Da che parte cadrà? Vincere o perdere dipende da un soffio, da un evento che non è in nostro potere. Allen traduce in immagine ciò che filosofi e scrittori hanno discusso per secoli: Epicuro con il suo clinamen, Machiavelli con la sua riflessione sulla fortuna, fino a Nietzsche che proclama la morte delle certezze metafisiche.
Chris Wilton, protagonista interpretato da Jonathan Rhys Meyers, non è un eroe tragico nel senso classico del termine: lui non combatte contro un fato immutabile, ma cerca di manipolare gli eventi, affidandosi al calcolo e, soprattutto, alla fortuna. La sua parabola lo contrappone a figure letterarie come quella di Raskol’nikov in “Delitto e castigo“. Là il delitto conduce alla redenzione attraverso la colpa ma qui, invece, l’assassino rimane impunito, segno di un universo in cui l’ordine morale non ha alcun fondamento.
Chris è un giovane irlandese che insegna tennis in un circolo esclusivo di Londra. Grazie al fascino e all’opportunismo, conquista l’amicizia dei ricchi Hewett e soprattutto la mano di Chloe, figlia della famiglia. Inizia così la sua scalata sociale, scandita da appartamenti con vista sul Tamigi, weekend in ville di campagna e serate all’opera. Ma nel cuore di questo mondo dorato si insinua un desiderio incontrollabile: l’attrazione fatale per Nola Rice, aspirante attrice americana interpretata da una magnetica Scarlett Johansson.
La relazione clandestina fra Chris e Nola si consuma all’insaputa di tutti, fino a trasformarsi in minaccia per la nuova vita del protagonista. Quando la donna rimane incinta e pretende di essere riconosciuta, Chris sceglie l’unica via che gli consenta di conservare privilegi e rispettabilità: l’omicidio. Da quel momento, “Match Point” cambia registro, abbandona le sfumature mondane per diventare un thriller incalzante, che si conclude con un finale tanto spiazzante quanto filosoficamente implacabile.
L’universo dipinto da Allen in “Match Point” è un luogo dove la giustizia non esiste. Non c’è punizione divina, non c’è equilibrio cosmico che riporti l’ordine violato ma solo la casualità governa le vite. In questa prospettiva, Allen sembra dialogare con il pensiero di Camus: come Sisifo spinge invano il suo masso, così Chris conquista tutto e al tempo stesso resta prigioniero del vuoto. L’impunità, lungi dall’essere una vittoria, si rivela una condanna silenziosa. L’eroe non viene incarcerato, ma è destinato a vivere nella glaciale alienazione di chi ha tradito la propria integrità.
“Match Point” segna una svolta nella carriera di Allen. È il primo capitolo del cosiddetto “trittico londinese”, che proseguirà con “Scoop” e “Sogni e delitti“, ma resta l’opera più compiuta e incisiva del ciclo. Qui il regista abbandona quasi del tutto l’ironia ebraico-newyorkese che lo aveva reso celebre per affrontare il dramma morale con una lucidità gelida. Il film dialoga a distanza con “Crimini e misfatti” (1989), dove già era comparsa la riflessione sul delitto e l’assenza di giustizia divina, ma a differenza di allora, Allen qui porta il discorso fino all’estremo. Non resta alcuna consolazione, se non quella – amara – che la fortuna decide più della virtù.
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Con “Match Point”, Woody Allen ha creato una delle sue opere più lucide e crudeli. È un film che, con la stessa eleganza di una partita a Wimbledon, disegna un universo dove la vita è regolata da un arbitro cieco e indifferente: il caso. Guardandolo, lo spettatore resta sospeso come la pallina sulla rete, in bilico tra la tentazione di parteggiare per Chris e il terrore di scoprire che forse Allen ha ragione. Se la fortuna governa il nostro destino, che spazio rimane per la giustizia, per la morale, per l’idea stessa di colpa? La risposta non è rassicurante. Ed è proprio in questa inquietudine, raffinata e disturbante, che “Match Point” rivela la sua natura di capolavoro.



