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Speciale “Mad Max: Fury Road”: 10 anni dopo l’odissea post-apocalittica di George Miller è ancora adrenalina pura

Federico Falcone Posted On 15 Maggio 2025
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Descrivere con un solo aggettivo “Mad Max: Fury Road” è riduttivo ma, se proprio dovessi farlo, lo etichetterei come straripante. Uscito il 14 maggio del 2015, ha la stessa potenza di un tornado di sabbia che t’investe a mille all’ora con il suo mix di dissennatezza, distopia e follia creativa. È cinema d’azione allo stato puro, è un’esperienza che ruggisce ed esplode, acceca e ti strozza il fiato in gola. “Mad Max: Fury Road” non è un film, è una macchina senza freni lanciata a folle velocità. A firmare questa perla, che proprio in questi giorni compie dieci anni dalla sua distribuzione sul grande schermo, è George Miller, regista australiano che già nel 1979 aveva creato l’universo di Mad Max, e che decenni dopo lo ha resuscitato con la furia visionaria di un esordiente indemoniato. Altro che cineasta sulla via del pensionamento!

Tom Hardy veste i panni Max Rockatansky, individuo solitario tormentato e silenzioso, Charlize Theron quelli di Furiosa, eroina rasata, mutilata, coraggiosa e inarrestabile, con un passato burrascoso tanto quanto il suo inaspettato compagno d’avventura. Al loro fianco troviamo Nicholas Hoult nei panni del folle War Boy Nux, ragazzo indottrinato che non attende altro che la fine dei suoi giorni per varcare la soglia del Valhalla, Hugh Keays-Byrne nel ruolo del tiranno idrovoro Immortan Joe, e le sue cinque Mogli, incarnate da Rosie Huntington-Whiteley, Riley Keough, Zoë Kravitz, Abbey Lee e Courtney Eaton.

La fotografia di John Seale trasforma il deserto della Namibia in una tavolozza di colori saturi e abbaglianti, trasmettendo appieno l’idea della sterilità post-apocalittica e della solitudine da disastro fantadistopico. Paesaggi più inospitali non si potrebbero immaginare: polvere, aridità, assenza di vita. La colonna sonora di Junkie XL è un delirio di percussioni e chitarre fiammeggianti che sembra uscita da un concerto industrial-metal di band quali Ministry, Rammestein o White Zombie. Ma il vero fautore è lui, George Miller, ex medico d’emergenza, che ha sempre avuto un rapporto “elastico” con il mondo del cinema: a fianco della saga di Mad Max ha diretto favole nere (“Le streghe di Eastwick”), film per famiglie (“Babe”) e musical digitali (“Happy Feet”), ma con “Fury Road” torna alle origini e lo fa con l’energia furibonda di chi rischia tutto. Miller non fa prigionieri!

Leggi anche: Recensione. “Il giardino delle vergini suicide”, l’enigma dell’esistenza nell’esordio alla regia di Sofia Coppola

La trama è tanto semplice quanto ipnotica: Max vaga in un mondo devastato e finisce per essere catturato dai War Boys e usato come sacca di sangue. In quest’angolo di pianeta gli uomini sono sacche di sangue e le donne produttrici di latte da mungere (il famoso “latte di madre”). Nel frattempo Furiosa, protetta di Immortan Joe, ufficialmente in missione per rifornimenti, fugge con le sue Cinque Mogli per metterle in salvo e cercare la leggendaria Terra Verde delle Madri. Quando Joe scopre il tradimento, scatena un inseguimento infernale tra dune, canyon e tempeste radioattive. Max, inizialmente riluttante, si unisce alla fuga e tra loro nasce un’alleanza forzata che coinvolge anche Nux, convertito dalla determinazione delle donne.

Dopo uno scontro con le Matriarche della Vuvalini e la scoperta che la Terra Verde non esiste più, il gruppo prende la decisione più folle: tornare indietro, riconquistare la Cittadella e rovesciare il potere. La Resistenza è viva, armata e pronta a ristabilire legalità e democrazia. L’assalto finale è un vortice di caos e distruzione: sospensioni idrauliche, pertiche oscillanti, esplosioni a tempo di tamburi e un climax che culmina nella morte di Joe e nella liberazione dell’acqua per il popolo schiavo. Furiosa viene accolta come nuova guida mentre Max, come da tradizione, sparisce nell’orizzonte, solitario ma redento.

In “Fury Road” tutto sembra davvero reale ed il merito è principalmente di George Miller che, con questa pellicola, ha osato in modo clamoroso: gli stunt sono veri (e lottano con noi), la CGI è ridotta al minimo e ogni dettaglio è messo in scena per mantenere altissima, e per due ore filate, la tensione. La camera è messa in posti impensabili facendo percepire tutto il senso della velocità, del panico, della determinazione, dell’azzardo. “Ogni volta che finivo un film di ‘Mad Max’, dicevo: ‘Non ne farò mai un altro.’ Ci deve sempre essere una ragione per tornarci. Nel caso di ‘Fury Road’, mi sono chiesto: quanto di una storia si può raccontare se il film è costantemente in movimento? Se si realizza un film di inseguimento esteso, quanto si può trasmettere? Quanto sottotesto può esserci?”, dichiarò il regista al The New Yorker.

E proprio questa sfida visiva, questo puntare sulla fisicità dei suoi interpreti per bucare lo schermo e arrivare dritti allo spettatore, è stata un’esperienza totalizzante e sfiancante che ha coinvolto tutto il cast, soprattutto i due protagonisti. “È stato fottutamente difficile. Non ho mai fatto nulla che richiedesse quel tipo di resistenza, e non credo che lo farò mai più”, spiegò Charlize Theron a NME, rivelando anche che l’intesa con Tom Hardy non fu proprio idilliaca. Lui che, dal canto suo, al The Independent, non nascose il grande dispendio fisico per girare il film. Ma, in fin dei conti, a noi di questo gossip non frega veramente nulla.

Dieci anni dopo la sua uscita, “Mad Max: Fury Road” è ancora lì, fermo nel mezzo del deserto cinematografico come un War Rig arrugginito ma inarrestabile, con il motore acceso e la chitarra lanciafiamme che ancora risuona nella testa. E la verità è che, per noi nerd (su, ammettiamolo, mica è un disonore, anzi…) questo film non ha mai davvero alzato il piede dall’acceleratore: continua a correre nella nostra memoria, nelle gif condivise, nelle fan theory e nei meme che lo hanno reso leggenda.

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Nel 2015 – noi tutti ce lo ricordiamo – quando George Miller decise di rispolverare il suo universo post-apocalittico, nessuno si aspettava un film così feroce. Certo, lo aspettavamo con hype (anche troppo, a dire il vero) ma chi poteva immaginare che sarebbe diventato subito un mega cult? Un action movie con dialoghi ridotti praticamente all’essenziale, con una narrazione per immagini degna di un fumetto e con una protagonista che rubava letteralmente la scena al personaggio titolare. Un film femminista? Si, decisamente. .

Un decennio dopo, le scene d’azione di Fury Road fanno impallidire la maggior parte dei blockbuster moderni: niente CGI estremizzata, niente tagli epilettici, stunt veri, regia geometrica e un montaggio (di Margaret Sixel, ricordiamolo sempre) che sembra una coreografia metal-punk. Un vortice di squilibrio e adrenalina, di caos organizzato e scene mozzafiato con personaggi grotteschi, buffi e perversi nel cuore e nell’anima.

Eppure, sotto tutta quella sabbia, ci sono temi ancora più granulosi: il trauma, la redenzione, la tirannia mascherata da religione, la speranza che nasce dalla collaborazione e non dalla forza bruta.

Roba che può sfuggire al primo visione, quando sei ipnotizzato dai Doof Warrior e dalle moto volanti, da un chitarrista incatenato di fronte al radiatore di un camion, ma che continua a scavare nel tempo, come le radici delle terre verdi che Furiosa cerca disperatamente. In un’epoca in cui il cinema action sembra spesso anestetizzato e ultrastandardizzato, Fury Road è ancora un’anomalia gloriosa. Un film che non si è piegato alle logiche di mercato e che non ti spiega, giusto per buttarla in caciara, tutto con una voce fuori campo.

Tutto sto pippone per fare pubblica ammenda e affermare che all’inizio dell’articolo ho sbagliato: “Mad Max: Fury Road” non è un film straripante, è una figata stratosferica!

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