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Speciale “Independence Day”: quando il 4 luglio del 1996 Will Smith prese a cazzotti gli alieni

Federico Falcone Posted On 4 Luglio 2025
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Era il luglio del 1996 e mentre negli Stati Uniti si celebrava il consueto tripudio a stelle e strisce tra bordate di patriottismo, grigliate con bistecche di brontosauro, hot dog chilometrici e pick up pieni di birra, nei cinema di tutto il mondo esplodeva un evento che avrebbe cambiato per sempre il modo di concepire il blockbuster estivo: Independence Day, diretto da Roland Emmerich, non era solo un film di fantascienza catastrofica ma anche un’esperienza, un terremoto visivo e sonoro che abbatté le frontiere tra il cinema d’intrattenimento puro e il kolossal epico, e che – tra alti e bassi – si guadagnò un posto d’onore nell’immaginario collettivo. Non una pellicola perfetta, ma una perfetta macchina di citazioni al fulmicotone, di gesta eroiche oltre l’inenarrabile, di toni trionfalistici, di boati e fiamme, di scontri e polvere, di straripante e incondizionato amore per la civiltà che “non morirà in silenzio”.

A quasi trent’anni di distanza, Independence Day è diventato un autentico film di culto. Più che un semplice disaster movie, è il manifesto di un’epoca cinematografica, quella pre-digitale in cui esplosioni, alieni e miniature di città distrutte convivevano con la retorica eroica, il patriottismo hollywoodiano e una buona dose di (in)volontaria autoironia. Dove la sboronaggine dei protagonisti non scendeva a compromessi, dove un Presidente si sedeva al fianco del peggior contadino ubriacone della working class, dove il complottismo veniva esaltato invece di essere condannato, dove gli eroi non indossavano la maschera e i REM facevano da colonna sonora. Ah, gli anni Novanta!

2 luglio 1996. Il SETI intercetta un misterioso segnale dallo spazio, ma non è un messaggio di pace. Enormi astronavi dal diametro di 27 chilometri si posizionano sopra le metropoli più importanti del pianeta. Nell’arco di poche ore, lasciano cadere la maschera e comincia il massacro: New York, Los Angeles, Washington, Londra, Tokyo… tutte ridotte in cenere da devastanti raggi energetici. Il mondo è sull’orlo del collasso tra fughe di massa, tentativi disperati di salvataggio e il crollo dei simboli architettonici delle metropoli mondiali. “Scacco matto“.

3 luglio 1996. I superstiti si rifugiano in una base segreta nel deserto del Nevada, l’iconica Area 51, quella che “sulle cartine non la vedo – fidati, c’è” Qui, apprendiamo che il governo americano conosceva l’esistenza degli alieni fin dagli anni ’50 e, più precisamente, dopo un presunto schianto UFO a Roswell (ma che meraviglia, per noi che ci crediamo). Mentre il mondo crolla, nasce una fragile alleanza tra civili e militari per sventare il genocidio. Vengono persino usati ordigni nucleari. “Possano i nostri figli perdonarci“.

4 luglio 1996. Il presidente degli Stati Uniti, Thomas J. Whitmore, lancia un appello disperato: combattere uniti per la sopravvivenza dell’umanità. A guidare la controffensiva ci sono il pilota di caccia Steven Hiller (Will Smith) e il geniale tecnico informatico David Levinson (Jeff Goldblum). L’arma segreta? Un virus informatico da installare nel sistema alieno. “Gli ho dato un raffreddore”. E così, in un climax rocambolesco, i due penetrano nell’astronave madre per sabotarla. La vittoria, in puro stile anni ‘90, è consegnata a una stretta di mano e una battuta ad effetto: “Questo è quello che chiamo gran finale – sei ossessionato“.

Will Smith è l’incontenibile capitano Steven Hiller. Carismatico, spavaldo, con il sorriso da “eroe per caso” che lo consacrò come star mondiale. Cazzottoni agli alieni in pieno volto (“Benvenuto sulla terra”), sigari in bocca e occhiali da sole. Per Smith, Independence Day fu la rampa di lancio verso “Men in Black”, “Enemy of the State” e un’intera carriera da blockbuster hero. In un’intervista con Entertainment Weekly (luglio 1996), dichiarò: “Era tutto così enorme. Mi guardavo intorno e pensavo: sto veramente volando in un’astronave con Jeff Goldblum? Questo film mi ha cambiato la vita”. Jeff Goldblum è David Levinson, eco-attivista trasformato in hacker salvatore della Terra. Con la sua mimica nervosa e il sarcasmo controllato, Goldblum presta al film una leggerezza intelligente, pur dovendo recitare dialoghi non sempre all’altezza del suo talento. In una chiacchierata con The Guardian (2015), disse: “Independence Day è quel tipo di film in cui sei costretto a credere che un virus su un Mac possa abbattere una civiltà millenaria. Eppure… funziona!”.

Bill Pullman, nel ruolo del presidente Whitmore, è il volto del patriottismo a stelle e strisce. Il suo discorso prima della battaglia finale è entrato nella leggenda del cinema americano. Da brividi (anche se taaaanto kitsch). Pullman, in una reunion del cast organizzata da Yahoo Movies, raccontò: “Non avevamo idea che quel discorso sarebbe diventato virale prima ancora che esistesse internet. Mi fermano ancora oggi per chiedermi di recitarlo”. Completano il cast Randy Quaid nei panni di un reduce alcolizzato che si sacrifica per l’umanità (“Va bene, brutti alieni del caxxo, usando un’espressione della mia generazione, ficcatevelo in…), Vivica A. Fox come Jasmine, la compagna di Hiller (una spogliarellista trasformata in madre coraggio), e un folto gruppo di comprimari che rispecchiano l’America profonda: scettici, religiosi, nerd, militari, outsider. Un mosaico pop e volutamente grossolano. Ah, c’è anche spazio per la massiccia presenza fisica di Adam Baldwin, il soldato Animal di Full Metal Jacket. Esaltazione pura!

Independence Day è un perfetto esempio di cinema apocalittico anni Novanta. Emmerich sa girare sequenze spettacolari con un tempismo magistrale: l’arrivo delle navi spaziali è puro cinema, un momento di tensione visiva e sonora che rimane scolpito nella memoria. L’uso dei modellini fisici per la distruzione delle città è ancora oggi straordinario per impatto visivo (ricordiamo che gli effetti speciali valsero l’Oscar al team guidato da Volker Engel). Il ritmo narrativo è serrato, i momenti di stallo sono ridotti al minimo e la progressione verso il climax avviene in modo quasi matematico, con esplosioni emotive e reali piazzate ad arte. Emmerich sa vendere l’epica come pochi, anche se lo fa con la retorica di un venditore di popcorn.

La coerenza narrativa è un optional. Il famoso “virus informatico” che abbatte una civiltà intergalattica è una forzatura che oggi genera più meme che plausi. Il tono altalenante – tra melodramma, action e slapstick comedy – crea uno sbilanciamento emotivo che può spiazzare. Ci piace, ci piace tutto. Le scelte di sceneggiatura spesso sembrano figlie di una logica da “videogioco”: le cose succedono perché devono succedere, non perché siano credibili. I personaggi sono archetipi, non persone: il soldato eroe, lo scienziato eccentrico, il presidente valoroso, l’ex-alcolizzato redento. Tutti perfettamente riconoscibili, ma raramente profondi. Ma che bello, che bello! È un film che non conosce la misura, ogni emozione è iperbolica, ogni scena spinta all’eccesso, ogni messaggio sottolineato a caratteri cubitali. La retorica patriottica è talmente sfacciata da rasentare la parodia (e per alcuni, la supera). Alcuni spettatori odierni potrebbero trovarlo datato, quasi ingenuo nella sua costruzione, ma è proprio questa ingenuità che ne rappresenta oggi la forza nostalgica.

Nonostante (o forse proprio grazie a) le sue contraddizioni, Independence Day ha aperto una nuova era nel cinema catastrofico e ha influenzato decine di film a venire: da Transformers a Cloverfield, da Battle: Los Angeles fino alla serialità moderna tipo The Expanse. Ha anche anticipato l’uso del marketing virale e degli effetti visivi come strumenti narrativi prima che diventassero la norma. La scena dell’Empire State Building che esplode è stata citata, parodiata e omaggiata infinite volte. Il film ha anche avuto un sequel (Independence Day: Resurgence, 2016), ma senza riuscire a replicare né l’impatto culturale né il fascino naïf dell’originale. Siamo sinceri: una schifezza totale.

Independence Day non è solo un film, è un’istantanea pop del suo tempo, un gigantesco giocattolo cinematografico che si prende (troppo) sul serio e che, proprio per questo, funziona. È il tipo di pellicola che ti fa amare il cinema con il cuore, prima ancora che con la testa. Lo guardi oggi e vedi tutti i difetti, ma sorridi lo stesso, perché ti ricordi chi eri quando lo hai visto la prima volta. È spettacolo puro, messo al servizio dell’emozione collettiva. È patriottismo cartonato, alieni a prova di pugno e computer che salvano il mondo. È, insomma, Independence Day: un film assurdo, iconico, epocale. E alla fine, sì: ti aveva promesso i fuochi d’artificio. E li ha mantenuti tutti.

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