Speciale. Green Day “Warning”, 25 anni dopo: la maturità (incompresa) del punk
C’è un momento, nella vita di ogni band, in cui si decide se restare giovani per sempre o crescere davvero. Per i Green Day quel momento si chiama “Warning“. Uscito nell’ottobre del 2000, il disco compie in questi giorni venticinque anni dalla sua pubblicazione, e riascoltarlo nel 2025 è come aprire un vecchio diario dove dentro c’è tutto quello che la band era, ma anche quello che stava per diventare. Dopo il successo planetario di “Dookie” (1994) e la carica abrasiva di “Insomniac” (1995), Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt e Tré Cool erano arrivati a un punto di saturazione. Il successivo “Nimrod” (1997) aveva già mostrato un desiderio di libertà, mescolando punk, pop e ballate acustiche. Con “Warning”, registrato tra gennaio e maggio del 2000 agli Studio 880 di Oakland, quella curiosità diventa scelta consapevole.
Per la prima volta, i Green Day decidono di produrre da soli il proprio album, con Rob Cavallo relegato a un ruolo marginale di supervisione. Il risultato è un disco caldo, più “umano”, dove le chitarre acustiche prendono il posto delle distorsioni, e la rabbia punk si trasforma in ironia folk-rock. Nonostante il debutto al numero 4 della Billboard 200 e vendite solide (156.000 copie nella prima settimana) “Warning” fu accolto con una certa freddezza. Complice anche la fuga di file su Napster, che diffuse l’album settimane prima dell’uscita ufficiale, le vendite non raggiunsero le vette dei lavori precedenti. Ma, come spesso accade, il tempo ha ribaltato il verdetto.
Oggi, a un quarto di secolo di distanza, “Warning” è riconosciuto come un passaggio cruciale nella carriera del trio, tanto che nel 2025 ne è stata annunciata una riedizione deluxe con 49 tracce, demo inediti e un concerto live da Tokyo 2001. La title track è già una dichiarazione d’intenti. Il riff acustico accompagna un testo che suona come un avvertimento: “stai attento, ma vivi”. È un pezzo che trasforma la rabbia in lucidità. Segue “Blood, Sex and Booze”, con il suo ritmo e un’ironia da bar di periferia; una canzone che scherza con il peccato e la trasgressione, ma sotto la superficie parla di alienazione.
“Church on Sunday” è forse il brano più particolare del disco con la sua melodia contagiosa, testi su amore e compromesso, e un’aria quasi da pub britannico. L’organo in sottofondo fa il resto, aggiungendo un tocco vintage che anticipa certi echi dei Killers o dei Libertines. Poi arriva “Fashion Victim”, satira irresistibile del conformismo giovanile. È pop, è ironica, è Green Day al cento per cento. Con “Castaway” si torna all’energia di “Dookie”, ma con una scrittura più matura. È un brano da viaggio, da finestrini abbassati, che parla di fuga ma anche di identità. E poi, all’improvviso, la sorpresa: “Misery”. Cinque minuti che sembrano arrivare da un altro disco: una marcetta folk in stile mariachi, orchestrata e teatrale. Qui i Green Day si divertono a giocare a essere altro, e ci riescono.
Il cuore centrale del disco prosegue con “Deadbeat Holiday”, “Hold On” e “Jackass”, un trittico che alterna introspezione, malinconia acustica e ritorni punk. “Hold On”, in particolare, è una piccola perla: una ballata quasi folk che dimostra come Armstrong sappia scrivere anche con dolcezza senza perdere sincerità. La parte finale è un crescendo di classe. “Waiting” è una delle loro canzoni più pure e senza tempo, una riflessione sull’attesa e sul destino. Poi arriva “Minority”, il singolo simbolo del disco, una cantilena ribelle, un inno all’individualità che è ancora oggi un momento centrale nei concerti della band. Chiude “Macy’s Day Parade”, dolente e limpida, una ballata che demolisce il sogno americano con la delicatezza di un sorriso amaro.
Al tempo, “Warning” fu definito da parte della critica come “un disco pop travestito da punk”, e questo bastò a creare diffidenza. Ma in realtà, fu il primo vero passo verso la maturità artistica dei Green Day. È un disco politico ma non militante, romantico ma non sentimentale, ironico ma mai cinico. E soprattutto, è un album che ha il coraggio di cambiare — cosa che poche band al culmine del successo osano fare. Nel 2020, NME lo ha descritto come “la prova generale di American Idiot”, un ponte tra il punk scanzonato e la grande narrazione rock che arriverà quattro anni dopo. E non è un caso che molti fan lo considerino oggi una gemma nascosta, un album che migliora con il tempo.
A venticinque anni dalla sua uscita, “Warning” suona ancora attuale. Forse perché parla di libertà e consapevolezza, di società e di persone comuni. O forse perché, sotto la patina leggera, è un disco scritto con cuore e mestiere, da tre musicisti che non avevano paura di mostrarsi vulnerabili. È il disco da ascoltare a volume alto e finestrini abbassati, quello che accompagna la fuga da casa o il primo viaggio da soli. E se oggi i Green Day possono permettersi di guardare la loro carriera con orgoglio, è anche perché nel 2000 ebbero il coraggio di pubblicare questo disco.



