Speciale Danny Boyle: dal realismo tossico di Trainspotting alla favola globale di The Millionaire
C’è una sorta di energia elettrica che attraversa il cinema di Danny Boyle. È quella stessa scossa che rimbomba nei corridoi sporchi di “Trainspotting“, nei viali deserti di una Londra contagiata in “28 Giorni Dopo“, o nei colori saturi di “The Millionaire“. Ogni suo film è un’esperienza fisica, un colpo che sveglia o risveglia lo spettatore. Ma parliamo comunque di un regista profondamente artigiano, curioso, instancabile nel reinventarsi, ma sempre fedele a una filosofia semplice: rischiare è l’unico modo per restare vivi nel cinema.
Nato il 20 ottobre 1956 a Radcliffe, vicino Manchester, Boyle non è cresciuto sognando Hollywood. Dopo gli studi in scienze microbiologiche si avvicina al teatro, dove impara la disciplina, il ritmo e l’importanza degli attori. Negli anni ’80 lavora come direttore artistico del “Royal Court Theatre Upstairs”, una delle fucine più audaci della scena londinese. Da lì, passa alla televisione e infine al cinema: un percorso che lo forma come regista capace di fondere la cultura popolare con un linguaggio visivo potente e sempre in movimento.
La sua carriera cinematografica comincia nel 1994 con “Shallow Grave“, un thriller nero e tagliente che lo impone immediatamente all’attenzione della critica. Ma è due anni dopo, nel 1996, che esplode davvero: “Trainspotting” diventa un manifesto generazionale, una denuncia sull’apatia e la dipendenza giovanile nell’Inghilterra degli anni ’90. Da lì, Boyle non si fermerà più: “The Beach” (2000), “28 Giorni Dopo” (2002), “Millions” (2004), “The Millionaire” (2008), “127 Hours” (2010), “Steve Jobs” (2015) e “T2 Trainspotting” (2017) sono le tappe di una carriera in continuo movimento, capace di saltare da un genere all’altro senza mai perdere riconoscibilità.
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“Trainspotting” è una mazzata, però. Nascosto dietro una sorta di patina pop, è tratto dal romanzo di Irvine Welsh e racconta la fuga — mentale e fisica — di un gruppo di ragazzi di Edimburgo dal vuoto e dalla dipendenza. È un film che balla al ritmo dei Primal Scream e degli Underworld, che respira in montaggi forsennati e in una fotografia saturata di vita e morte. Boyle, a proposito, raccontò anni dopo: “Bisogna rischiare davvero. Era impossibile adattare Trainspotting così com’era, quindi non ci abbiamo nemmeno provato. Ci siamo lasciati ispirare.” E su “T2 Trainspotting” aggiunse: “Abbiamo dovuto stare attenti. Puoi annegare nella nostalgia.” Quella frase dice tutto del suo approccio: per Boyle il cinema è sempre una corsa in avanti, anche quando guarda indietro.
Dopo il successo di “Trainspotting”, Boyle vola in Thailandia per girare “The Beach“, con un giovanissimo Leonardo DiCaprio. È la sua prima vera esperienza hollywoodiana, ma non tutto fila liscio. Il regista stesso ha ammesso: “The Beach è stato meraviglioso per tutti, tranne che per me. Il problema era la scala: troppo grande, troppo ingombrante. Ho imparato che nei film più grandi il controllo è tutto”. Il film, pur non essendo un disastro, segna una lezione importante: Boyle scopre che la libertà creativa vale più del glamour internazionale.
Dopo l’esperienza hollywoodiana, Boyle torna a casa, e lo fa con un film che ridefinisce il genere post-apocalittico. “28 Giorni Dopo” è girato in digitale, con una troupe ridotta e un approccio quasi guerrigliero. Le immagini di una Londra deserta, abbandonata al silenzio, diventano iconiche. “Girare in digitale è stato fantastico,” raccontava il regista. “Si adattava perfettamente alla natura ribelle del film”. Con quel film, Boyle inventa un nuovo tipo di paura, più psicologica, più visiva, più “contemporanea”, e dimostra che il suo talento brilla proprio quando lavora ai margini del sistema.
Dopo i mostri e le catastrofi, arriva un film per famiglie. “Millions” è la storia tenera e ironica di un bambino che trova una borsa piena di soldi e deve decidere cosa farne. È un film piccolo, ma rivelatore: Boyle dimostra una leggerezza sorprendente, un senso morale che scorre sotto la superficie del gioco. Ancora una volta, cambia tono senza perdere la sua voce. Con “Slumdog Millionaire” Boyle compie la sua parabola perfetta: dal realismo tossico di Trainspotting al sogno globalizzato e coloratissimo dell’India contemporanea. Il film, un racconto di riscatto e destino, conquista il mondo: otto premi Oscar, tra cui miglior regia. Eppure lui, con il suo understatement tipicamente britannico, disse: “L’Oscar? Lo tengo in una scatola”. Un modo per dire che la gloria non lo ha cambiato. Il successo mondiale di “The Millionaire” lo consacra definitivamente, ma non lo seduce: continuerà a cercare nuove sfide, senza mai ripetersi.
Parlare del cinema di Danny Boyle significa parlare di ritmo. I suoi film sono flussi di immagini e suoni che ti trascinano dentro. La musica è sempre protagonista, i montaggi sono sincopati, l’immagine buca lo schermo. Boyle ama muovere la macchina da presa in modo fisico, quasi istintivo. Le sue location — da Edimburgo a Bangkok, da Londra a Mumbai — diventano personaggi. E la sua versatilità è disarmante: horror, commedia, biopic, dramma sociale, fantascienza… tutto filtrato da una mano riconoscibile, energica, pop. “Alcuni giorni mi sveglio e penso di essere un grande regista,” ha confessato. “Altri, mi dico: ‘Cavolo, sono terribile.’” Una frase che racchiude il suo metodo: entusiasmo e dubbio come motori creativi.
Nell’ambiente cinematografico, Boyle è considerato un regista “ibrido”: popolare ma autoriale, artigiano e innovatore. È uno di quei pochi autori che hanno saputo dare nuova linfa al cinema britannico negli anni ’90, portandolo fuori dai confini nazionali senza tradirne lo spirito. Vogue Italia lo definì “uno dei pochi registi contemporanei capaci di sperimentare con i generi senza perdere la propria identità”. È stimato per la sua energia contagiosa e per la capacità di trasformare limiti produttivi in occasioni creative. Non a caso, dopo i film più “grandi”, Boyle è sempre tornato a progetti più piccoli, dove può respirare libertà.
Oggi Boyle è di nuovo in piena attività. Ha appena rilanciato la saga di “28 Giorni Dopo” con “28 Years Later“, primo capitolo di una nuova trilogia scritta con Alex Garland. “Non sono zombie,” precisa. “Sono infetti.” Il secondo film della trilogia, “The Bone Temple“, uscirà nel 2026 con la regia di Nia DaCosta, mentre Boyle tornerà dietro la macchina da presa per il terzo capitolo. Parallelamente, sta preparando un grande evento al Southbank Centre di Londra per celebrare il 75° anniversario del Festival of Britain. Un autore che, a quasi settant’anni, continua a muoversi come un regista punk.
Ogni suo film, grande o piccolo che sia, è un atto di fede nel potere del cinema di scuotere e sorprendere. La sua è una lezione di coraggio, di non temere il rischio, perché nel rischio si trova la verità. Boyle è l’esempio perfetto di come il cinema mainstream possa essere ancora un luogo d’autore, di come la forma possa convivere con il pubblico, e di come l’energia, se guidata dall’istinto, possa trasformare anche una semplice storia in un’esperienza elettrizzante. E guardando i suoi prossimi progetti, una cosa è certa, e cioè che Danny Boyle non ha ancora finito di sorprenderci.



