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“Roma città aperta”: Roberto Rossellini e il racconto della Resistenza nel cuore della Città Eterna

Fabio Iuliano Posted On 25 Aprile 2025
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È l’autunno del 1943, l’Italia è un Paese oltre l’orlo del baratro, è in pieno precipizio, sospeso tra l’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione tedesca. La libertà è un miraggio, un’utopia. Roma, formalmente “città aperta”, è teatro di rastrellamenti, torture e delazioni. Caos e paura riempiono le strade della Città Eterna, le truppe tedesche si insediano con violenza mentre il tessuto urbano e umano della Capitale si lacera ogni giorno di più. Questo è il contesto storico, profondamente drammatico, che fa da sfondo a “Roma città aperta“, film capolavoro del 1945 di Roberto Rossellini, opera-manifesto del Neorealismo e testimonianza cinematografica tra le più vibranti del Novecento italiano ed europeo.

Rossellini, reduce da una Roma vissuta nella clandestinità, trasforma il proprio vissuto personale in cinema civile. “Anch’io ho dovuto nascondermi”, dirà in seguito, e proprio da questa consapevolezza nasce la necessità di narrare il dolore e il coraggio della gente comune. Con lui, alla sceneggiatura del film, collaborano Sergio Amidei, Alberto Consiglio e Federico Fellini, gruppo di autori che riesce a trasformare un’idea inizialmente pensata come documentario – ispirato alla figura del sacerdote antifascista don Giuseppe Morosini – in un racconto corale, realistico e potente.

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Il film si snoda attorno alla figura di Giorgio Manfredi, ingegnere comunista e dirigente della Resistenza, costretto alla fuga dopo una retata nazista. L’uomo trova rifugio da don Pietro, parroco di borgata coinvolto attivamente nella lotta clandestina contro l’occupante. Tra i due nasce un’amicizia fatta di silenzi e gesti solidali, radicata nella comune volontà di non cedere al terrore. Marina, giovane attrice e amante di Manfredi, lo tradisce per denaro e sicurezza. L’arresto è inevitabile. Le torture alla sede della Gestapo non piegano né l’ingegnere né il prete. Manfredi muore sotto i colpi dei nazisti. Don Pietro affronta la fucilazione con il coraggio di chi crede nella dignità umana prima ancora che nella fede religiosa. A margine, altre figure popolari come Pina, madre vedova e partigiana nel cuore, incarnano l’anima pulsante di una città che resiste con le unghie e con il cuore.

Roma città aperta è anche un film di volti. Aldo Fabrizi, attore solitamente associato alla commedia, sorprende per l’intensità con cui interpreta don Pietro. Anna Magnani, nel ruolo di Pina, incarna la donna del popolo con una forza viscerale. La sua corsa disperata dietro il camion che porta via il compagno, per poi cadere sotto i colpi dei nazisti, è diventata un’immagina iconica del cinema mondiale. Accanto a loro, Marcello Pagliero presta intensità e sobrietà a Manfredi e Giovanna Galletti dà il volto freddo e ambiguo alla traditrice Marina. A completare il quadro c’è il glaciale Harry Feist nei panni del maggiore Bergmann che incarna l’oppressore con inquietante precisione.

Le condizioni di produzione furono al limite del possibile. Senza accesso a Cinecittà, occupata dagli sfollati, Rossellini e la sua troupe utilizzarono pellicole avanzate e rubarono elettricità alla redazione americana di una rivista. Gli esterni furono girati nei veri quartieri romani devastati dalla guerra: via Raimondo Montecuccoli, nel quartiere Prenestino, ospitò la scena della morte di Pina. Gli interni vennero invece allestiti nel Teatro Capitani, nei pressi di via del Tritone. Le scelte estetiche non furono dettate solo dalla povertà di mezzi ma da una chiara volontà etica: “Il Neorealismo – spiegava Rossellini – è prima di tutto una posizione morale”.

Tante le scene che hanno reso immortale il film: la delazione di Marina che spezza l’equilibrio precario della rete della Resistenza e mostra il lato oscuro delle scelte individuali; le torture alla Gestapo che rappresentano un confronto tra la brutalità e l’integrità morale alle quali né don Pietro né Manfredi crollano; poi c’è la morte di Pina che non è solo una tragedia personale ma l’atto di martirio di un popolo che non accetta la sopraffazione; c’è la fucilazione finale di don Pietro, con i bambini che osservano muti.

Presentato per la prima volta il 24 settembre 1945 al Teatro Quirino di Roma, “Roma città aperta” ricevette il Grand Prix al Festival di Cannes del 1946, ottenne una candidatura agli Oscar per la miglior sceneggiatura originale, vinse due Nastri d’Argento (miglior regia e miglior attrice non protagonista ad Anna Magnani) e fu successivamente incluso nella prestigiosa lista dei 100 film italiani da salvare. Il lavoro, restaurato nel 2014 dal “Progetto Rossellini”, è ancora oggi proiettato in occasione della Festa della Liberazione come testimonianza storica e culturale.

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“Roma città aperta” non è solo un film: è un documento, una preghiera laica, un grido di dignità. In un’Italia devastata, Rossellini consegna al mondo la verità di una città sotto occupazione, affidandola alle voci e ai volti di chi ha conosciuto il dolore ma non ha smesso di sperare. È il primo capitolo di una trilogia sulla guerra che proseguirà con Paisà (1946) e Germania anno zero (1948), e che ancora oggi ci invita a riflettere, con occhi lucidi e cuore vigile, sulla fragilità e la forza della libertà.

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