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Roma, 21 maggio 1972: l’attacco alla Pietà di Michelangelo scuote il mondo dell’arte

Federico Rapini Posted On 20 Maggio 2025
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Era la tarda mattinata di domenica 21 maggio 1972, giorno di Pentecoste, quando la quiete spirituale della Basilica di San Pietro fu interrotta da un gesto che avrebbe lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva e nella storia dell’arte. Alle 11:30 circa, tra la folla di fedeli e turisti, un uomo scavalcò la balaustra che proteggeva la Pietà di Michelangelo, capolavoro assoluto del Rinascimento, e cominciò a colpirla con un martello. Un atto di follia!

Il responsabile dell’aggressione fu László Tóth, cittadino australiano di origini ungheresi, all’epoca trentatreenne, geologo di formazione, ma affetto da disturbi psichici. Impugnando un martello da geologo con punta acuminata, sferrò almeno quindici colpi contro la scultura. Il bersaglio principale fu la figura della Vergine: le frantumò il naso, ne staccò il braccio sinistro e ne danneggiò il volto in più punti, mandando in frantumi una cinquantina di pezzi di marmo. Tra le urla della folla sconvolta, Tóth gridava: “Cristo è risorto! Io sono il Cristo!“.

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Solo dopo interminabili secondi di panico, alcune guardie e visitatori riuscirono ad immobilizzarlo. L’attacco, del tutto inatteso, provocò un’ondata di sgomento internazionale. Papa Paolo VI si recò immediatamente a pregare dinanzi all’opera violata, sottolineando in un discorso pubblico che “il fumo di Satana è entrato nei sacri palazzi”, un’espressione destinata a diventare celebre per la sua forza simbolica.

László Tóth, nato nel 1938 in Ungheria e trasferitosi in Australia nel 1965, aveva mostrato da tempo segni di squilibrio: più volte si era recato in Vaticano chiedendo di parlare con il Papa e proclamandosi la reincarnazione di Cristo. Non fu mai chiarito se l’attacco alla statua fosse premeditato, ma alla luce delle sue condizioni mentali, la giustizia italiana decise di non processarlo. Fu internato in un ospedale psichiatrico per due anni, dopodiché venne espulso e rimpatriato in Australia, dove visse lontano dai riflettori fino alla morte, nel 2012, in una casa di cura.

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La devastazione dell’opera apparve inizialmente irreparabile. Eppure, nel giro di pochi mesi, i laboratori di restauro vaticani riuscirono in un’impresa titanica. Sotto la supervisione del celebre critico e teorico dell’arte Cesare Brandi, e con la direzione tecnica di Deoclecio Redig de Campos, allora responsabile dei Musei Vaticani, fu avviato un delicato intervento conservativo. I frammenti originari furono meticolosamente raccolti e catalogati: alcune porzioni vennero reintegrate con un composto speciale a base di polvere di marmo e resina. I restauratori Ulderico Grispigni e Francesco Dati lavorarono fianco a fianco con esperti come Gabrielli, Federici e Giuseppe Moresi, quest’ultimo autore delle integrazioni mancanti.

Il restauro durò sette mesi, e il 25 marzo 1973, in occasione della festa dell’Annunciazione, la Pietà fu restituita alla vista del pubblico, da quel giorno protetta da un vetro antiproiettile. Una misura drastica, ma necessaria per garantire la sicurezza di una delle opere più preziose del patrimonio artistico mondiale. L’episodio rimane una delle ferite più dolorose inflitte al patrimonio artistico italiano nel secondo dopoguerra, ma anche un esempio luminoso di competenza, pazienza e dedizione nella difesa della bellezza. Un attacco folle trasformato in una lezione di resilienza culturale.

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