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Recensione. “Un altro piccolo favore”: il sequel che nessuno aveva chiesto

Taddeus Harris Posted On 5 Maggio 2025
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Ci sono sequel che fanno rimpiangere l’originale, cioè il capitolo precedente, e poi c’è “Un altro piccolo favore“, che fa rimpiangere anche solo l’idea di averlo girato, figuriamoci visto. Sette anni dopo il successo di “Un piccolo favore (2018)”, Paul Feig ci riprova con un secondo capitolo che vorrebbe imitare la spensieratezza del primo ma finisce per inciampare su quasi tutti gli ostacoli classici dei sequel mal riusciti: trama forzata, umorismo fuori fuoco e cliché a pioggia. Non aiuta che il film pretenda una memoria di ferro dallo spettatore, ignorando il fatto che, dopo quasi un decennio, qualche minuto di riassunto non è un lusso bensì una necessità. D’altronde non stiamo parlando di un classico immortale del quale ci si ricorda ogni fotogramma.

Emily Nelson (Blake Lively) è uscita di prigione dopo aver finto la sua morte e ucciso la sorella gemella nel primo capitolo. Stephanie Smothers (Anna Kendrick), ex food blogger diventata influencer del true crime, ha scritto un libro sul caso: “The Faceless Blonde”, che però non vende una copia neanche sotto tortura. Insomma, è un flop gigantesco e altisonante. La sua carriera è in caduta libera finché Emily non ricompare a sorpresa durante una presentazione e la invita al proprio matrimonio a Capri. In Italia Emily sta per sposare l’imprenditore Dante Versano (Michele Morrone), rampollo ambiguo con un passato non troppo limpido e una madre, Portia (Elena Sofia Ricci), che sembra uscita da una parodia delle fiction italiane anni ’90.

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Stephanie accetta l’invito, nonostante l’evidente disagio di rivedere anche Sean (Henry Golding), ex marito di Emily e suo ex amante. Inutile dirlo, inizia il “mistero” (virgolette d’obbligo): dei cadaveri spuntano in hotel. Tra volgarità gratuite, dialoghi sopra le righe e trovate narrative al limite del ridicolo, Stephanie si ritrova di nuovo a indagare. Ad aiutarla, o meglio, a confonderla, ci sono anche la zia e la madre di Emily, interpretate da Allison Janney ed Elizabeth Perkins. Poi c’è anche Vicky (Alex Newell), assistente tuttofare di Emily, figura pittoresca ma mai davvero incisiva.

Se nel 2018 il lavoro di Feig era un mix tra thriller e commedia e funzionava per freschezza e sorprese, qui si trasforma in una giostra disordinata. La sceneggiatura è firmata da Jessica Sharzer (già autrice del primo film e di “American Horror Story”) e Laeta Kalogridis (“Shutter Island”, “Altered Carbon”), due nomi importanti dei quali, in questo lavoro, non si ravvisa l’impronta. Il film punta tutto sullo stile camp—esagerazione, artificio, citazionismo spinto—ma lo fa in modo claudicante e tristemente parodistico. Il problema principale di questo film è proprio una narrazione a tratti grottesca e per nulla convincente. L’Italia diventa una macchietta con Napoli e Capri ridotte a set turistici senz’anima. La trama, invece di avanzare, si attorciglia su sé stessa con colpi di scena telefonati e un finale che cerca la sorpresa ma ottiene solo confusione.

Anna Kendrick è l’unico motivo valido per guardare il film fino alla fine. Ironica, misurata, credibile anche quando tutto attorno a lei perde il senso, regala momenti di genuino divertimento. La sua Stephanie è un personaggio che funziona ancora: goffa, curiosa, piena di contraddizioni ma vera. Blake Lively, al contrario, sembra quasi intrappolata in un’imitazione del suo stesso personaggio. Seducente, misteriosa, manipolatrice: ma tutto senza evoluzione, senza direzione. Henry Golding fa il minimo sindacale, Michele Morrone (nella parte più internazionale della sua carriera) non convince, Elena Sofia Ricci è sprecata in un ruolo eccessivo e caricaturale che fa rimpiangere la sua eleganza in altri contesti.

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Un sequel pieno di scelte sbagliate, carico di cliché e poche cose da dire rispetto al suo predecessore. La Kendrick tiene a galla il progetto, ma non può salvarlo. E così, tra battute stanche, location sprecate e personaggi ridotti a figurine, lo aggiungiamo alla lista di passi falsi e pellicole di cui, tutto sommato, potevamo farne tranquillamente a meno.

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