Recensione. “The Assessment – La Valutazione”: un dramma distopico su genitorialità, potere, identità

Tra le onde dello sconfinato mare della fantascienza distopica, “The Assessment – La Valutazione” si distingue come un’opera lucida e disturbante. L’esordio alla regia di Fleur Fortuné, presentato fuori concorso al Toronto Film Festival e distribuito da Prime Video, è un pugno nello stomaco, una partita a tre che prende la forma di un esperimento sociale ma si trasforma presto in una crisi emotiva travestita da thriller psicologico. Il film, forte di un cast sugli scudi guidato da Elizabeth Olsen, Alicia Vikander e Himesh Patel, pone una domanda scomoda e urgente: chi può decidere chi merita di diventare genitore?
In un futuro non troppo lontano, il “Vecchio Mondo” è stato annientato dal cambiamento climatico. Le nascite sono ormai regolamentate dallo Stato per controllare la demografia presenta sulla Terra. La genitorialità non è più un diritto naturale ma un privilegio da meritare tramite una procedura chiamata Assessment: una valutazione emotiva, psicologica e relazionale, portata avanti da funzionari statali specializzati.
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Mia (Elizabeth Olsen) e Aaryan (Himesh Patel) sono una coppia solida, affermata professionalmente e apparentemente pronta a compiere il grande passo verso la genitorialità. Ma prima di ottenere l’autorizzazione devono superare la valutazione. Per sette giorni vivranno sotto l’occhio vigile di Virginia (Alicia Vikander), un’osservatrice inviata dal governo che, come una moderna inquisitrice, s’insedia nella loro vita con la freddezza di un algoritmo e la precisione di una lama. Ciò che comincia come un semplice esame di compatibilità si trasforma rapidamente in un gioco al massacro. Virginia non osserva, provoca, trae in inganno, trasgredisce, smonta certezze, semina dubbi, mette a nudo le contraddizioni della vita di coppia. Con il sorriso tagliente e la logica disumana di un funzionario devoto, scava nel cuore della coppia: nelle loro paure, nei non detti, nelle crepe invisibili che iniziano lentamente ad allargarsi.
Il test, apparentemente “scientifico”, si rivela un dispositivo crudele, fatto di piccoli sabotaggi psicologici, frustrazioni erotiche, provocazioni latenti. Virginia diventa l’elemento perturbatore, il giudice e insieme il carnefice. Inizia ad agire con comportamenti infantili, incoerenti, sfidando ogni logica: gioca con oggetti di casa, si accoccola tra loro, interrompe momenti intimi. Il suo è un ruolo ambiguo: una volta terapeuta, un’altra carceriera, sempre più presente, fino a diventare un’ossessione per Mia.
Nel corso dei sette giorni, la casa – un’abitazione tecnologica su una scogliera isolata – diventa palcoscenico di una tragedia. Ogni stanza una trappola, ogni gesto un indizio. La tensione tra Mia e Aaryan esplode: lui si rifugia nel suo lavoro di architetto del “Nuovo Mondo”, lei affronta i fantasmi di un passato irrisolto. L’amore che li univa inizia a vacillare sotto il peso del giudizio. Nel climax più disturbante, il triangolo tra i tre prende una piega erotico-psicologica. Virginia si insinua tra i due, tanto simbolicamente quanto fisicamente. Ma non è passione: è potere. Il sesso non è liberazione, è una leva di controllo.
Nel giorno finale, un incidente – apparentemente causato da una negligenza della coppia – mette in pericolo la vita di Virginia. È il momento di svolta: l’osservatrice mostra finalmente una crepa nella corazza, una vulnerabilità che non si capisce se sia reale o costruita. Ma il verdetto finale è implacabile: la valutazione è negativa. Mia e Aaryan non potranno avere un figlio. La conclusione non è consolatoria: i due non si separano, ma neppure si riappacificano. Rimangono lì, svuotati, in un silenzio eloquente. Ma il vero colpo di scena è riservato agli ultimi minuti: Virginia stessa è stata madre in passato, e ha perso il diritto di esserlo. La sua spietatezza non era solo dovere, ma un esercizio di controllo nato da un dolore antico e rimosso. Il suo gesto finale – guardare una vecchia foto nascosta – è l’unico momento di umanità sincera in un contesto di atarassia assoluta.
“The Assessment” è cinema del disagio etico e della claustrofobia psicologica. L’ispirazione a Black Mirror è evidente – e ben gestita – ma Fortuné non si limita a replicarne la formula: costruisce un’architettura narrativa stratificata, dove ogni elemento (scenografia, luci, performance attoriale) è studiato per sostenere una visione disturbante e coerente. Il merito più grande del film sta nel suo coraggio: non cerca la via facile dell’empatia ma ci mette davanti a un’idea radicale – la genitorialità come privilegio istituzionale – e la porta alle estreme conseguenze.
Elizabeth Olsen offre una delle sue prove più intense: trattenuta, rotta, mai melodrammatica. Il suo sguardo, spesso sfuggente, regge lunghi silenzi carichi di significato. Himesh Patel, più sobrio, rappresenta la razionalità frustrata, l’uomo che tenta di salvare il salvabile mentre tutto affonda. Ma è Alicia Vikander a dominare la scena: la sua Virginia è un personaggio memorabile, scritto con sfumature da antieroe e interpretato con una grazia glaciale che inquieta più di mille urla.
“The Assessment – La Valutazione” è un’opera disturbante, sofisticata e provocatoria, che mette lo spettatore sotto osservazione tanto quanto i suoi protagonisti. Non cerca l’approvazione, ma la riflessione. Non consola, ma interroga. Un film necessario in un’epoca dove anche i sentimenti rischiano di diventare misurabili, tracciabili, monetizzabili. E dove la libertà di essere genitori potrebbe diventare l’ultima frontiera del controllo sociale.