Recensione. Nel cuore nero della provincia italiana: Sollima racconta “Il Mostro”
Con “Il Mostro“, miniserie in quattro episodi approdata su Netflix dopo l’anteprima mondiale all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, Stefano Sollima firma uno dei lavori più intensi e complessi del panorama televisivo italiano recente. Un racconto cupo e stratificato che riporta in vita la vicenda del Mostro di Firenze, tra gli enigmi criminali più enigmatici e controversi della storia italiana, con una prospettiva inedita, coraggiosa e profondamente politica. Il risultato è una serie densa, priva di compiacimento, che non cerca il sensazionalismo del true crime ma la riflessione sull’origine stessa della violenza. Un racconto che mescola cronaca e tragedia, psicologia e storia sociale.
Dopo “Romanzo criminale“, “Suburra “e “ZeroZeroZero“, Stefano Sollima torna a indagare le pieghe più oscure dell’Italia contemporanea. Insieme allo storico sodale Leonardo Fasoli, costruisce una narrazione che scava nel mito del Mostro scegliendo una prospettiva laterale: la cosiddetta “pista sarda”, rimossa o semplificata da molte ricostruzioni precedenti. Quattro episodi, quattro punti di vista: quello di Stefano Mele, Giovanni Mele, Francesco Vinci e Salvatore Vinci. Ciascuno di loro è al centro di un capitolo che alterna il presente delle indagini del 1985 — guidate dalla PM Silvia Della Monica (interpretata da Liliana Bottone) — e i flashback nel passato rurale e soffocante degli anni Sessanta.
Il primo episodio si apre con la riapertura delle indagini sul duplice omicidio di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, avvenuto a Signa nel 1968. La donna, sposata con Stefano Mele, viene trovata morta in auto insieme all’amante; accanto a loro, illeso, il figlio Natalino, che nella notte vaga scalzo fino a un casolare per chiedere aiuto. Mele confessa quasi subito, ma la sua versione convince poco. Anni dopo, nel pieno delle indagini sui delitti del Mostro, alcuni bossoli ritrovati nel fascicolo di quel vecchio caso rivelano un dettaglio sconvolgente, cioè che l’arma è la stessa usata nei successivi omicidi delle “coppiette”.
Da qui parte un intreccio che alterna passato e presente, ricostruendo le dinamiche di potere, gelosia e violenza dentro la piccola comunità sarda emigrata in Toscana. Barbara Locci emerge come il cuore pulsante della serie: donna libera, ribelle, oggetto di desiderio e disprezzo, vittima di una cultura patriarcale feroce. Sollima e Fasoli ne fanno il simbolo di un mondo in cui la violenza maschile non è un’eccezione ma la norma, tramandata come un virus familiare e sociale. Ogni episodio aggiunge dettagli o li smentisce, riscrive verità, sposta il punto di vista. Il puzzle si ricompone lentamente, ma mai del tutto. L’incertezza, su chi sia davvero il Mostro e cosa rappresenti, diventa la chiave stessa della narrazione.
L’intero cast si muove dentro un realismo febbrile. Marco Bullitta presta a Stefano Mele un volto stremato, fragile, sospeso tra vittima e colpevole. Antonio Tintis, Giacomo Fadda e Valentino Mannias incarnano con inquietante naturalezza i fratelli Mele e Vinci, uomini corrosi dalla gelosia e dall’ossessione.
Accanto a loro, Liliana Bottone costruisce una Silvia Della Monica determinata e lucida, unica figura femminile in un mondo maschile e ostile, pronta a sfidare il killer sul suo stesso terreno. Ogni interpretazione restituisce la tensione di un’epoca, quella dell’Italia tra i ’60 e gli ’80, dove l’emancipazione femminile cozza con un sistema patriarcale che si difende con la violenza.
Gran parte degli eventi narrati è rigorosamente basata sui verbali, sugli atti processuali e sugli articoli dell’epoca. Sollima e Fasoli hanno consultato testimonianze e carte giudiziarie, cercando una fedeltà che non impedisse la libertà drammatica. Alcune delle sequenze più incredibili, come il tragitto notturno di Giovanni Mele con la donna che lo accuserà, o il cammino scalzo del piccolo Natalino nella notte del delitto, sono tratte da fatti realmente documentati. La serie evita accuratamente il sensazionalismo. Non compaiono Pietro Pacciani né i “compagni di merende”. L’attenzione resta fissata sul microcosmo della “pista sarda”, con le sue dinamiche familiari, le relazioni incestuose, le pulsioni represse.
Il vero protagonista de “Il Mostro” non è un individuo ma un sistema. Il “mostro” diventa un’entità collettiva, fatta di silenzi, omertà, sguardi distorti. Sollima costruisce un ritratto della provincia italiana come incubatrice del male: un mondo dove la morale pubblica soffoca, e la violenza privata esplode. Ogni episodio scava nel cuore di quella violenza domestica che precede, accompagna e giustifica il femminicidio. La serie suggerisce che il Mostro di Firenze non è solo un assassino, ma un sintomo, l’emersione patologica di un Paese in cui il dominio maschile e il controllo sul corpo femminile erano dati per scontati. A rendere l’esperienza ancora più immersiva è la colonna sonora di Alessandro Cortini, già collaboratore di Trent Reznor nei Nine Inch Nails: i suoi suoni sintetici, minimali e ossessivi, creano un tappeto sonoro che non lascia respiro: un ronzio costante che sembra provenire da dentro la mente dei personaggi.
La fotografia, firmata da Paolo Carnera, alterna i toni lividi delle notti toscane a un chiarore estivo che sa di menzogna. Ogni inquadratura sembra scolpita nella paura e nel senso di colpa. Al di là del fascino del caso giudiziario,” Il Mostro “è un’opera sul patriarcato, sulla cultura del possesso e sul trauma generazionale. Barbara Locci e Silvia Della Monica diventano i poli opposti di una stessa lotta: una vittima e una testimone, due donne schiacciate da un mondo che non le vuole libere. Il killer scrive proprio a lei, Della Monica, “perché sei l’unica donna”, le dicono, e in quella frase si condensa tutto il senso politico e simbolico del racconto.
“Il Mostro” non è una serie perfetta, però. A tratti la sua struttura rischia di diventare cerebrale, e alcune scelte di ritmo chiedono attenzione e pazienza. Ma nel panorama della produzione italiana segna un passo decisivo. Sollima porta il true crime fuori dal territorio dell’intrattenimento, restituendogli profondità storica e responsabilità morale. Il male, in questa serie, non è solo nei fatti: è nel modo in cui li guardiamo. E questa, forse, è la verità più scomoda che Il Mostro ci mette davanti allo schermo.



