Recensione. “Jurassic World: La Rinascita”: l’atto di fede e devozione di Gareth Edwards

Quando si parla di Jurassic Park, non si parla solo di dinosauri ma di una sorta mitologia cinematografica che ha segnato una generazione cresciuta tra VHS, modellini di raptor e la colonna sonora di John Williams. A distanza di oltre trent’anni dal primo ruggito, “Jurassic World – La Rinascita” tenta di alzare nuovamente l’asticella per provare a riattivare il cuore della saga. E lo fa con Gareth Edwards in cabina di regia, uno che, già da “Monsters” e “Rogue One”, aveva dimostrato di saper unire il gigantismo visivo alla tensione intima. Qui non dirige solo un film di animali estinti, riportati in vita e ormai a stretto contatto con la società che non può più ignorarli, ma un reboot che parte dalla memoria nerd collettiva per costruire qualcosa di nuovo. O, almeno, ci prova. Un nuovo capitolo di un franchising dal quale si cerca ancora di estrapolare qualcosa.
Il film si apre cinque anni dopo il disastroso epilogo di “Il Dominio” (a detta di chi scrive, il capitolo meno riuscito – per essere gentili – della saga). Il mondo ha fatto quello che fa sempre nei franchise quando le cose sfuggono di mano: ha confinato, silenziato, rimosso. I dinosauri esistono ancora, ma in zone isolate, come reliquie viventi. Quasi ghettizzati. Anche se, insomma, vivere a stretto contatto con un T-Rex non deve essere proprio piacevole. Come da tradizione, una megacorporazione decide di metterci le mani sopra. L’obiettivo? Recuperare il materiale genetico di tre super esemplari, un Mosasauro, un Titanosauro e un Quetzalcoatlus perché, ovviamente, nel loro DNA si nasconde la chiave di un farmaco rivoluzionario. Classico incipit da bio-thriller, con echi di Michael Crichton e un vago sentore di Resident Evil versione paleontologica. Praticamente un miscuglio di cose viste e riviste e di sottotrame già largamente esplorate. Niente di nuovo sotto al sole (parte uno).
A guidare la spedizione troviamo Scarlett Johansson che interpreta Zora Bennett, una soldatessa tormentata ma tostissima, che pare un mix tra Ripley e Lara Croft in chiave survival. Jonathan Bailey è Henry Loomis, paleontologo accademico con un passato da allievo di Alan Grant (le citazioni nerd si sprecano). Mahershala Ali completa il trio come Duncan Kincaid, capitano silenzioso con profondità interiori tutte da scoprire. Il dinamismo tra i tre regge, anche se i ruoli sono scritti in modo piuttosto tradizionale. E mentre la missione si fa più pericolosa, spunta anche una famiglia di naufraghi civili, naufragata su un’isola-laboratorio che pare il DLC horror di Subnautica. È la classica subplot da umanità in mezzo al caos, e funziona quanto basta per alzare la posta emotiva. Praticamente un miscuglio di cose viste e riviste e di sottotrame già largamente esplorate. Niente di nuovo sotto al sole (parte 2).
Ma il vero punto d’interesse, o di frizione, a seconda del giudizio che ognuno di noi si sarà, è il Distortus Rex. Nome già di per sé da boss finale, anche se quasi parodistico e caricaturale. Tutto incute, tranne timore. Parliamo di una creatura geneticamente modificata, ibridata, che pare disegnata da un concept artist di Dino Crisis 3. È affascinante, minacciosa… ma anche un po’ troppo “effetto videogioco”. Rompe, se vogliamo, quel delicato equilibrio che Spielberg aveva creato: i dinosauri non erano mostri, erano animali straordinari. Qui invece, il Distortus è puro mostro. Eppure, paradossalmente, è anche il simbolo più onesto del film stesso, un ibrido narrativo, figlio di un DNA mutato, che non sempre sa cosa vuole essere ma che non ha paura di provarci. Praticamente un miscuglio di cose viste e riviste e di sottotrame già largamente esplorate. Niente di nuovo sotto al sole (parte tre).
La regia di Edwards è viscerale e a volte sporca, più o meno volutamente. Le sequenze ambientate nella giungla, tra pioggia, fango e ruggiti lontani, sono le più riuscite. C’è tensione vera. E c’è anche un tocco horror che ricorda “Alien”, soprattutto nella scena del laboratorio sotterraneo: luci fredde, pareti sudicie, urla ovattate. C’è atmosfera che, in un film di questo tipo, è indispensabile. Edwards non si nasconde: copia, cita, rielabora. Ci sono intere inquadrature che sembrano estratte direttamente dallo storyboard di “Jurassic Park” (quello vero, del ‘93), e passaggi musicali che flirtano con Alan Silvestri più che con Williams. Ma tutto, anche quando è troppo, suona come un tributo affettuoso. Questo film non rinnega nulla: è figlio devoto di un franchise che ha ormai tanti padri e troppe eredità da gestire.
Tutto bello, emozionante, devoto, citazionista, ma non privo di difetti e lacune ad iniziare dalla sceneggiatura. David Koepp torna a scrivere per la saga, ma stavolta si ferma in superficie. Le implicazioni scientifiche e morali – clonazione, bioetica, diritti degli animali preistorici – sono buttate lì, ma non esplorate. Il film preferisce avanzare a ritmo da platform con tre creature, tre ambienti, tre scontri. Sembra quasi strutturato per livelli. Ma per un pubblico leggermente nerd questa divisione “videoludica” potrebbe essere anche un plus: ogni atto è un set piece distinto, ogni mostro ha le sue meccaniche, ogni boss fight la sua arena.
E allora ecco che “La Rinascita”, pur con le sue incertezze e fragilità riesce a restituire qualcosa che i capitoli precedenti avevano smarrito: il senso della meraviglia. Il brivido. Quella combinazione rara di stupore e pericolo che, nel primo Jurassic Park, si concentrava tutto nello sguardo sbalordito di Sam Neill di fronte ai Brachiosauri. In questa pellicola quel momento non viene mai replicato davvero, ma almeno se ne sente la ricerca sincera, non cinica. Il film è imperfetto, ma non pigro. E per chi è cresciuto con le enciclopedie dei dinosauri e le action figure di velociraptor, questo conta.
“Jurassic World – La Rinascita” non reinventa nulla, ma riporta dignità a una saga che rischiava il collasso per saturazione. La tiene a galla, gli dà respiro e forse nuove prospettive. È un film che ha voglia di raccontare, anche se non sempre trova il modo giusto per farlo. È un ponte tra passato e futuro, tra pupazzi animatronici e CGI, tra Crichton e il gaming narrativo. Insomma, un reboot per nerd, nostalgici e paleontologi da divano. Da vedere in sala, per sentire il ruggito nei polmoni e tornare, almeno per due ore, a credere che la scienza possa ancora stupire.