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Recensione: “IT – Welcome to Derry”, alle origini del male (1° episodio)

Federico Falcone Posted On 28 Ottobre 2025
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Per parlare di “It: Welcome to Derry”, è necessario fare un passo indietro di qualche anno. Siamo a Boulder, Colorado, nel 1978. Apparentemente è una sera qualunque. Un giovane cammina tranquillo per riprendere l’auto lasciata dal meccanico. Tutto sembra normale, ma quando i suoi passi risuonano su un vecchio ponte di legno, qualcosa si accende nella sua mente. E quel qualcosa stravolge la sua esistenza. Quell’uomo è Stephen King e, da quel lampo, nasce “IT“, il romanzo che più di ogni altro racchiude le sue ossessioni: l’infanzia, la paura, la colpa, la provincia americana come incubatrice del Male.

L’ispirazione arriva da una fiaba nordica, “I tre capretti furbetti“, nella quale un troll affamato che vive sotto un ponte divora chiunque osi attraversarlo. King si chiede come trasporre quell’immagine in un contesto moderno e, nel farlo, immagina un mostro che abita sotto le strade di una cittadina del Maine, invisibile ma onnipresente, pronto a nutrirsi dei timori di chiunque gli capiti davanti. Così nasce “IT”, figura pagliaccesca che trasuda una forma primordiale del terrore, un’entità mutante che riflette ciò che ciascuno teme di più.

Leggi anche: “La lunga marcia” di Stephen King (Richard Bachman): l’inferno a passo d’uomo

Pubblicato nel 1986 dopo anni di scrittura, “IT” travalica i confini del genere. È un horror, certo, ma anche un romanzo epico, un racconto di formazione e una radiografia impietosa dell’America. King, profondamente radicato nella cultura statunitense ma allergico al suo culto del successo, chiama i protagonisti “Losers“: un atto di ribellione contro l’ideale del vincente e contro l’ipocrisia del sogno americano. Quasi cinquant’anni dopo quella visione sul ponte, il cerchio si chiude, oppure si riapre, con “IT: Welcome to Derry“, prequel televisivo prodotto da HBO e diretto da Andy Muschietti, in onda in Italia su Sky e NOW dal 27 ottobre 2025.

L’esordio della serie è folgorante. Dalla prima sequenza è chiaro che “Welcome to Derry” non si limita a sfruttare un marchio, ma punta a costruire un nuovo capitolo del mito. Muschietti (affiancato dalla sorella Barbara e dallo sceneggiatore Jason Fuchs) dà forma a un universo coerente e inquietante, sostenuto da una produzione sontuosa e da un’estetica che unisce eleganza e perturbazione.

Siamo nel 1962, in una Derry apparentemente tranquilla, sospesa tra ottimismo postbellico e paranoia da Guerra Fredda. Un ragazzino, Matty, s’introduce di nascosto in un cinema, ma la sua fuga notturna si trasforma presto in incubo. Quella che sembra un’avventura infantile diventa una visione disturbante con un parto mostruoso, sangue che scorre, un grido che lacera il silenzio. È una scena di puro orrore, ma anche un manifesto poetico che rappresenta la nascita del Male nel ventre della normalità.

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Anni dopo, la sua sparizione diventa una ferita nella memoria collettiva. Un gruppo di adolescenti — Lilly, Phil, Teddy, Ronnie e Susie — si ritrova unito dal destino degli emarginati. Intanto, Leroy Hanlon (Jovan Adepo), pilota della base militare locale, si trasferisce in città con la moglie Charlotte (Taylour Paige) e scopre che nei sotterranei della base si nascondono esperimenti che nessuno osa nominare. Tra i personaggi compare anche Dick Hallorann, l’uomo della “luccicanza” reso celebre da Shining, a confermare il legame profondo tra gli universi kinghiani.

La serie intreccia questi fili per raccontare l’origine di “IT”: un’entità ciclica che ritorna ogni ventisette anni, assumendo le sembianze delle paure più intime. Dietro i suoi artigli si nascondono i veri orrori della provincia americana: bullismo, razzismo, indifferenza, perbenismo di facciata. È qui che” Welcome to Derry” mostra di aver capito la lezione di King, perché il vero mostro non è l’entità sovrannaturale, ma la società che la genera e la lascia agire indisturbata.

Muschietti gioca con la percezione dello spettatore come King faceva con la pagina. La macchina da presa indugia sui dettagli insignificanti come un’insegna al neon che lampeggia o un sorriso che dura un secondo di troppo, e lentamente costruisce l’inquietudine. La normalità si incrina, e dietro la superficie patinata dell’America anni Sessanta si apre un abisso. È la stessa sensazione che King ebbe quella sera sul ponte di Boulder: l’idea che l’orrore possa nascondersi dietro la routine più banale.

Ogni elemento scenico diventa simbolo di passaggio: il ponte, la sala cinematografica, la base militare. Tutti luoghi di transizione tra innocenza e conoscenza, tra realtà e incubo. Derry stessa si fa metafora dell’inconscio collettivo: un teatro di colpe represse, dove il Male si nutre del silenzio dei cittadini.

Come nel romanzo, il cuore emotivo batte nei personaggi più fragili. I giovani protagonisti, invisibili agli adulti e derisi dai coetanei, incarnano la purezza del coraggio. È nel loro sguardo che si riflette la coscienza morale della storia. L’idea del Losers’ Club torna attuale, quindi. Solo chi accetta la propria vulnerabilità può affrontare l’orrore, dentro e fuori di sé. In questo senso, la serie non parla soltanto di un clown assassino, ma di un’umanità smarrita. “Welcome to Derry “è un racconto sul trauma e sulla memoria, sull’impossibilità di restare innocenti in un mondo che finge di esserlo.

Leggi anche: Stephen King, re dell’horror e della libertà d’espressione: perché la sua censura dice molto dell’America di oggi

Tecnicamente, la serie è un piccolo gioiello. La fotografia alterna toni lattiginosi e ombre dense, restituendo una Derry sospesa tra incubo e sogno americano. Le scenografie ricostruiscono con precisione filologica l’atmosfera dei primi anni Sessanta: le vetrine, le auto, i giocattoli, perfino le texture dei tessuti. Il cast funziona: Adepo e Paige offrono interpretazioni solide e dolorose, mentre i giovani attori che interpretano i nuovi “perdenti” riescono a bilanciare fragilità e forza interiore. L’orrore, pur presente, non è mai gratuito. Gli effetti visivi sono di alto livello, ma ciò che davvero inquieta è la tensione psicologica, la percezione che qualcosa di antico e ineluttabile si muova sotto la superficie.

Sarebbe sbagliato definire “IT: Welcome to Derry” un semplice prequel, poiché è un’estensione coerente e profonda del mondo kinghiano. Il suo primo episodio restituisce la magia nera del romanzo originale: La paura come specchio della società, la memoria come condanna, l’infanzia come ultimo baluardo contro il Male. Il pilot, intenso e visivamente impeccabile, cattura l’essenza di “IT “e la rinnova per una nuova generazione. È un viaggio nell’oscurità americana, dove ogni sorriso può celare un abisso. Come quella sera del 1978, anche noi, attraversando il ponte di Derry, sappiamo che qualcosa ci sta osservando. Eppure andiamo avanti, perché la paura, come la memoria, non si può evitare ma solo attraversare.

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