Recensione. “Il signore delle mosche” di William Golding

Pubblicato nel 1954, “Il signore delle mosche” è il romanzo d’esordio di William Golding, autore britannico insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1983. Golding, ex insegnante e marinaio durante la Seconda Guerra Mondiale, riversa nelle sue opere una visione profondamente disillusa dell’essere umano, maturata tra i banchi di scuola e i cruenti scenari di guerra. Egli partecipò come ufficiale di marina allo sbarco in Normandia durante la Seconda guerra mondiale, esperienza che segnò profondamente la sua visione dell’uomo. Proprio da questo vissuto nasce un’opera inquieta e disturbante, che indaga l’animo umano con lo sguardo freddo e chirurgico di chi ha visto da vicino il collasso della civiltà.
Il libro si apre con un evento apparentemente semplice: un gruppo di ragazzi inglesi precipita con un aereo su un’isola tropicale durante un ipotetico conflitto globale. Nessun adulto sopravvive all’impatto. I superstiti — bambini e adolescenti di varia età — si ritrovano in un Eden incontaminato, liberi da ogni autorità. Ma ciò che potrebbe sembrare l’inizio di una favola di autodeterminazione si trasforma presto in un incubo primordiale.
Ralph, uno dei più grandi, viene scelto come leader: ha il portamento calmo del comandante naturale, il carisma del ragazzo retto. Accanto a lui troviamo Piggy, bambino sovrappeso, intelligente e razionale, emarginato dagli altri per il suo aspetto e la sua goffaggine. Piggy è la voce della ragione, il portatore della logica adulta, colui che crede nella costruzione di rifugi, nell’uso della conchiglia come simbolo di ordine e nel mantenimento del fuoco, che rappresenta la speranza di salvezza.
Ma l’isola, come un organismo vivente, respira, osserva e muta i suoi abitanti. Le regole si sgretolano lentamente, dissolvendosi sotto il sole rovente e i venti tropicali. Jack, capo del coro scolastico, si trasforma in guida di un branco di cacciatori. All’inizio uccide per nutrire. Poi per dominare. Infine, per puro godimento. Dipinge il suo volto con colori tribali, si affranca da ogni pudore, e guida una discesa collettiva nella barbarie.
L’opposizione fra Ralph e Jack non è solo una lotta per il potere. È il conflitto eterno tra razionalità e impulso, tra etica e istinto, tra la costruzione e la distruzione. I ragazzi si dividono in due tribù, in due visioni dell’uomo e del mondo. La civiltà vacilla, poi crolla. La violenza prende il posto delle parole. La paura genera superstizione, la superstizione alimenta il terrore.
Nel cuore della narrazione si staglia una figura emblematica: Simon, fragile e introverso, unico tra i bambini ad avere un contatto autentico con la natura e una consapevolezza quasi mistica del male. È lui a fare esperienza della rivelazione simbolica più potente del romanzo: la visione della testa di un maiale mozzata, conficcata su un palo e circondata da mosche. Quella testa parlante, che Simon battezza Il Signore delle Mosche (traduzione dell’ebraico Ba’al Zebub, ovvero Belzebù), gli rivela una verità tanto semplice quanto agghiacciante: «Il male non è fuori, è dentro di noi». Non c’è mostro da combattere nella foresta, il mostro è l’uomo stesso.
Lo stile di Golding è sobrio, diretto, privo di orpelli. Il suo linguaggio, scarno e misurato, lascia spazio alla forza delle immagini e alla densità simbolica dei gesti. La narrazione è costellata di tensione, inquietudine, allegorie. Non c’è compiacimento nella descrizione della violenza: ogni scena è secca, crudele, necessaria. Non c’è giudizio morale, ma una constatazione fredda: quando le strutture sociali crollano, la civiltà è una sottile patina che si sfalda con disarmante facilità.
L’epilogo, tragico e beffardo, si consuma con l’arrivo di un ufficiale britannico. La sua sorpresa davanti al degrado morale dei bambini — «Mi sarei aspettato qualcosa di meglio da dei ragazzi inglesi» — è un pugno allo stomaco. L’ironia, sottile ma tagliente, smaschera il mito dell’innocenza infantile e della superiorità occidentale: l’uomo, ovunque e a qualsiasi età, è capace di scendere nell’abisso.
Il signore delle mosche non è solo un romanzo di formazione al contrario, è un esperimento letterario sul concetto di umanità. Golding porta alle estreme conseguenze l’assunto di Hobbes — homo homini lupus — e lo esplora non tra criminali o soldati, ma tra bambini. Il risultato è una parabola cupa e lucidissima sulla natura dell’uomo, sulla sottile linea che separa l’ordine dal caos.
Nonostante sia stato scritto più di settant’anni fa, questo libro non ha perso un grammo della sua forza. È un’opera che continua a disturbare, che interroga e scuote. Non consola, ma chiarisce. E la sua lezione è chiara: se non ci riconosciamo nel volto dipinto di Jack, allora dobbiamo almeno guardarci allo specchio e domandarci quanto ci separa da lui.