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Recensione. “Il giardino delle vergini suicide”, l’enigma dell’esistenza nell’esordio alla regia di Sofia Coppola

Taddeus Harris Posted On 13 Maggio 2025
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Era il 1999 quando con “Il giardino delle vergini suicide“, Sofia Coppola esordiva alla regia. Un’opera di straordinaria raffinatezza visiva e profondità emotiva che ha marcato fin da subito lo stile della regista newyorkese figlia del grande Francis Ford. Presentata lo stesso anno al Festival di Cannes nella sezione “Quinzaine des Réalisateurs”, la pellicola ha fatto parlare di sé non come il più classico dei teen drama ma come una riflessione poetica e perturbante sul mistero dell’esistenza adolescenziale. Il debutto della regista è stato, fin dal primo momento, accolto molto positivamente dalla critica di settore, anche e soprattutto perché capace di coniugare delicatezza formale e spessore concettuale attraverso un’opera tutt’altro che banale o retorica.

Ambientato nei sobborghi americani degli anni Settanta, “The Virgin Suicides” segue le vicende delle cinque sorelle Lisbon: Cecilia, Lux, Bonnie (Chelse Swain), Mary (A.J. Cook) e Therese (Leslie Hayman). Adolescenti eteree, quasi irreali, vivono sotto il rigido controllo dei genitori (una madre devota e severa, interpretata da Kathleen Turner, e un padre mite e remissivo, James Woods). La più giovane, Cecilia (Hanna R. Hall), tenta il suicidio e poi riesce nel secondo tentativo, lasciando dietro di sé una domanda senza risposta. Questo evento tragico avvolge le sorelle in un’aura sempre più enigmatica, alimentando l’ossessione dei ragazzi del quartiere che, incapaci di comprendere le ragazze, ne colgono solo il fascino inspiegabile.

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Quando Lux (Kirsten Dunst) si distingue come figura centrale – seducente e vulnerabile al tempo stesso – la repressione familiare si acuisce. I genitori, sconvolti da una sua trasgressione notturna, decidono di segregare in casa tutte le figlie. Da quel momento in poi, la casa dei Lisbon diventa una sorta di prigione. I ragazzi, un tempo spettatori incuriositi, diventano testimoni impotenti di un evento irreparabile: il suicidio collettivo delle sorelle, in un gesto che appare sproporzionato e assoluto. A distanza di venticinque anni, quegli stessi ragazzi, ormai uomini, cercano ancora di dare senso a quella tragedia che non ha mai smesso di tormentare la loro memoria.

Accanto a Kirsten Dunst, che incarna con grazia ambigua il personaggio centrale del film, troviamo un gruppo di giovani attrici che contribuiscono a costruire il coro silenzioso delle sorelle Lisbon: ognuna, con la propria presenza discreta e intensa, partecipa alla creazione di una costellazione femminile sospesa tra vita e sogno, tra carne e simbolo.

Sofia Coppola, figlia d’arte, ma cineasta autonoma fin dal primo lungometraggio, adatta il romanzo di Jeffrey Eugenides del 1993 con una sensibilità sorprendentemente personale. Evita i toni didascalici o moralistici, preferendo evocare piuttosto che spiegare. La sua regia è misurata e, perché no, anche sensuale, sostenuta dalla fotografia sognante di Ed Lachman e dalla colonna sonora ipnotica degli Air. Coppola non vuole “spiegare” le Lisbon, vuole avvicinarsi al loro mistero senza violarlo. Il suo sguardo è al tempo stesso tenero e distaccato, come quello dei ragazzi che le osservano e ne tramandano il ricordo.

Pur restando fedele alla struttura del libro, il film prende una strada propria. Se Eugenides lavora soprattutto sul linguaggio e sull’ambiguità del narratore collettivo, Coppola affida al racconto le immagini facendo della sospensione e del non detto i suoi strumenti principali. Il film è meno interessato ai dettagli sociali o all’ironia sottile del romanzo ma più al pathos estetico e alla suggestione poetica. Notevole il fatto che il film rifiuti deliberatamente ogni tentativo di spiegazione psicologica o sociologica che sarebbe potuto anche risultare prevedibile e banale. I genitori, lo psicologo, gli insegnanti e persino i compagni di scuola risultano incapaci di comprendere il gesto tragico delle sorelle Lisbon. Lo stesso sguardo degli adulti è ottuso, impacciato, fuori fuoco. La Coppola non intende redigere un atto d’accusa contro la famiglia tradizionale, né proporre un’allegoria della repressione sessuale ma, ciò che le interessa, è la dimensione insondabile del desiderio che attraversa le ragazze come una corrente invisibile e incontrollabile.

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Nel mondo di Coppola l’adolescenza non è un passaggio ma un enigma. Non è uno stadio da attraversare, ma uno spazio esistenziale che sfugge a ogni classificazione. Le Lisbon non si ribellano ma resistono. Non fuggono ma si chiudono. Non esprimono il loro dissenso ma incarnano un’alterità irriducibile. Non si tratta di un film sull’amore o sul sesso, ma su una forza più profonda e più indefinita: un desiderio che non chiede di essere soddisfatto, ma custodito nella sua opacità. In questo senso, il suicidio non è la negazione della vita, ma la sua trasfigurazione tragica, l’esito estremo di una tensione inesprimibile.

“Il giardino delle vergini suicide” un’opera sospesa tra la luce e l’ombra, tra il rito dell’immagine e la crudezza dell’evento. Sofia Coppola firma un esordio autoriale di rara finezza, capace di restituire il dolore e la bellezza dell’adolescenza senza mai ridurli a formule. Come Antigone, le sorelle Lisbon sembrano portatrici di un ordine altro, che non appartiene né alla ragione né al cuore, ma a una sfera sacra e tragica. E proprio per questo, la loro storia continua a risuonare – silenziosamente, misteriosamente – nel cuore dello spettatore.

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