Recensione. “Honey Don’t!” di Ethan Coen: un noir che si perde nei suoi stessi riflessi
C’è poco da girarci intorno: “Honey Don’t!” è una delusione. Dopo il già zoppicante “Drive-Away Dolls”, Ethan Coen tenta di proseguire la sua personale “trilogia queer di serie B” con un film che, invece di chiarire la direzione del progetto, ne amplifica tutti i limiti. Il risultato è un noir pasticciato, privo di identità, che si muove incerto tra l’omaggio cinefilo e il parodiare sé stesso. Dove dovrebbe esserci satira, troviamo caricatura, dove si cerca sensualità e anarchia, rimane solo un divertissement autoreferenziale, incapace di trovare una vera ragione d’essere.
La trama si concentra su Honey O’Donahue (una Margaret Qualley magnetica ma prigioniera di una scrittura fragile), investigatrice privata di Los Angeles coinvolta in un caso che parte da una morte sospetta e si allarga fino a lambire i confini del delirio religioso. A tirare le fila c’è un predicatore carismatico e inquietante, interpretato da Chris Evans, figura simbolo di un’America puritana e ipocrita, mentre al fianco di Honey agisce MG Falcone (Aubrey Plaza), poliziotta disillusa e amante improvvisata. L’indagine si trasforma presto in un viaggio allucinato attraverso la provincia americana più degradata, tra chiese, motel e comunità settarie, ma senza che la tensione o la curiosità riescano mai davvero a decollare.
Coen prova a mescolare registri (noir, commedia, erotismo e satira) ma non funziona. Il film sembra rimbalzare da un tono all’altro senza trovare un equilibrio. L’ironia che nei film dei fratelli Coen serviva a disinnescare la tragedia qui non funziona. L’ambientazione californiana e l’estetica da B-movie si vorrebbero liberatorie, ma finiscono per apparire solo svogliate, come se ogni scena cercasse di ricordarci che siamo di fronte a una parodia e non a un vero noir.
Ci sono, certo, lampi isolati. La relazione tra Honey e MG, soprattutto nelle sequenze più intime, restituisce momenti di sincerità e calore, dove la chimica tra Qualley e Plaza riesce a emergere nonostante tutto. In quei frangenti il film sembra respirare, allontanandosi dal suo stesso caos e trovando una fragile umanità. Ma sono brevi pause in un racconto che procede a scatti, zavorrato da dialoghi piatti e da un ritmo spezzato che non costruisce né tensione né empatia.
Il nodo più evidente resta la mancanza di coerenza. Coen sembra indeciso se reinterpretare il B-movie in chiave queer o semplicemente giocarci sopra e finisce così per non fare né l’uno né l’altro. L’immaginario del noir americano (la femme fatale, la moralità ambigua, la corruzione) viene evocato ma mai approfondito, come se bastasse la citazione a renderlo vivo. Anche la dimensione politica, che pure affiora in controluce (la satira sugli estremisti MAGA, il fanatismo religioso), resta in superficie, priva della ferocia e del controllo che i fratelli Coen sapevano imprimere persino alle loro storie più assurde.
“Honey Don’t!” si rivela quindi un passo falso nella carriera solitaria di Ethan Coen. È un film che aspira alla libertà e finisce intrappolato nella propria inconsistenza, un oggetto cinematografico che vuole essere provocatorio ma non osa davvero. Rimane il sospetto che, senza la mano del fratello Joel, Ethan fatichi a trovare un linguaggio capace di trasformare il caos in forma, la parodia in poesia. Forse, più che un nuovo capitolo di una trilogia queer, sembra l’esperimento personale di un regista che torna sul proprio terreno per scoprire che, da solo, non riesce più a renderlo fertile.



