Recensione. “Good Boy” di Jan Komasa: educare con la violenza, amare con il guinzaglio
“Lo faccio per il tuo bene”: una frase semplice, quasi banale, eppure in “Good Boy” diventa una minaccia. Il nuovo film del polacco Jan Komasa, già candidato all’Oscar con Corpus Christi (2019), è un viaggio disturbante e claustrofobico dentro l’idea di educazione come controllo, di affetto come prigionia. Presentato in concorso nella sezione Progressive Cinema della Festa del Cinema di Roma 2025, “Good Boy” segna il debutto in lingua inglese del regista – sostenuto dagli sceneggiatori Jeremy Thomas e Jerzy Skolimowski – e conferma il talento di un autore che sa muoversi tra allegoria e realismo, ferocia e pietà.
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Il protagonista è Tommy (Anson Boon, per la prima volta sullo schermo), diciannove anni, tossico, violento, arrogante, un concentrato di eccesso e autodistruzione. Komasa lo mostra subito in tutta la sua volgarità: si droga, picchia chiunque gli capiti a tiro, tradisce la fidanzata davanti a lei, si masturba e urina in pubblico. Un bullo senza coscienza, un ragazzo che vive solo di pulsione e rabbia. Lo spettatore impara a odiarlo – e proprio per questo lo sviluppo del film è tanto più perturbante.
Dopo una notte di eccessi, Tommy viene rapito e si risveglia in uno scantinato. Al collo, una catena collegata al soffitto con un guinzaglio metallico, a cui verrà aggiunta una campanella che segnala ogni suo movimento. È prigioniero di una coppia di borghesi britannici, Chris (Stephen Graham, l’apprezzato padre in “Adolescence“) e Kathryn (Andrea Riseborough) anche detta “Principessa“… e del loro giovanissimo figlio biondo e inquietante, Jonathan, che loro chiamano “Sunshine”. La famiglia dice di volerlo “rieducare”, di trasformarlo in un “bravo ragazzo”. Ma il metodo è un delirio di coercizione e devozione: punizioni fisiche, lavaggi del cervello, lezioni di morale e una versione domestica della “cura Ludovico” – in cui al ragazzo vengono mostrate le proprie stories sui social, piene di violenza, sopraffazione e disprezzo, ma anche musica classica, film e video educativi sulle droghe e la violenza, rumori bianchi e metodi per dominare la rabbia.
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Komasa costruisce un ottimo thriller psicologico, sfociando spesso nel genere del torture porn emotivo, in cui il dolore non serve a eccitare ma a interrogare. Il regista di “Good Boy” trasforma la casa in un laboratorio del potere: ogni violenza è normalizzata, ogni gesto di Tommy ha una conseguenza. I coniugi alternano la brutalità all’affetto, lo colpiscono per poi premiarlo, lo umiliano per poi offrirgli del cibo, convinti che la violenza sia una forma di amore.
La fiducia è un processo, deve essere costruita
Nel microcosmo chiuso della villa, la pazzia diventa routine. Tommy comincia a compiacere i suoi rapitori: inizia a leggere, a suonare, a parlare con Jonathan come se fosse davvero un fratello minore. Ma ogni gesto di tenerezza è contaminato: Sunshine, con il suo sorriso forzato e gli occhi spenti, è il prodotto più riuscito del metodo dei genitori. Punito severamente per ogni minimo errore, è la prova vivente che l’amore, in “Good Boy“, è solo un altro nome per la prigionia.
Accanto a loro si muove discretamente Rina, la governante immigrata illegalmente, interpretata da Monika Frajczyk: è lei, con il suo sguardo silenzioso e la paura negli occhi, a farci scoprire la portata reale dell’orrore. Tramite lei capiamo che quella casa nasconde segreti più profondi, che forse Tommy non è la prima “vittima” di una terapia domestica travestita da missione etica.
Il film avanza con un ritmo teso, quasi ipnotico. La regia di Komasa è chirurgica, fatta di campi larghissimi per mostrare l’isolamento e primi piani brutali, quasi a costringere i corpi nell’inquadratura. L’isolamento è totale: niente telefono, niente connessioni, niente via di fuga. Eppure, dentro quella gabbia, Tommy scopre un paradossale senso di pace. Per la prima volta qualcuno lo guarda, lo ascolta, si occupa di lui – anche se lo fa incatenandolo. È così che “Good Boy” diventa davvero inquietante: quando la prigionia inizia a sembrare conforto, e la violenza assume la forma della cura.
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Komasa stesso, in conferenza stampa alla Festa del Cinema di Roma, ha spiegato: “Sono stato spinto a sfidare la mia confort-zone, creando qualcosa di scomodamente intimo. Il film è una specie di allegoria del controllo e delle relazioni affettive. Quelle che chiamiamo connessioni nelle dinamiche di ogni famiglia spesso diventano catene. Ma nel momento in cui cerchi di creare un rapporto con una persona non hai più la stessa libertà di prima, perché comunque si deve rinunciare a qualcosa per avere in cambio cure e attenzioni”
Come in Corpus Christi, anche qui il regista mette in scena il desiderio di redenzione come una trappola morale. Tanto che ad un certo punto lo spettatore non sa più da che parte stare: Tommy è odioso, ma nessuno merita la disumanità che subisce; Chris e Kathryn sono mostruosi, ma agiscono per un ideale distorto di rieducazione e “famiglia”. In questo spazio grigio, Komasa costruisce una riflessione feroce sulla società dell’attenzione, in cui ci si chiede se la libertà sia ancora desiderabile quando si è completamente soli.
Visivamente impeccabile, con un uso sapiente del suono e della luce che trasforma la villa in un organismo vivo, “Good Boy” è una parabola disturbante sulla colpa e sul bisogno di essere visti e accuditi. Il regista non ha paura di sporcarsi le mani: guarda dritto nel cuore della crudeltà e trova lì il desiderio di tenerezza.
Il finale non offre redenzione né sollievo. Forse Tommy fugge, forse resta, forse la catena al collo è ormai parte di lui. Ma quando il film si chiude, resta nell’aria una domanda che punge più di qualsiasi colpo: e se la libertà, dopotutto, fosse solo un’altra forma di prigionia? Komasa non dà risposte, ma ci lascia un’eco inquieta, come una campanella che continua a suonare nel buio.



