Recensione. “Giotto – 7 caffè su un altro pianeta” di Farge: rabbia, sesso e redenzione a piccoli sorsi

In un panorama letterario spesso popolato da personaggi più costruiti che vissuti, “Giotto – 7 caffè su un altro pianeta” di Matteo Farge (pseudonimo di Matteo Di Fabio) è un’opera priva di filtri che non chiede il permesso. Non si scusa, non edulcora, non cerca giri di parole. Ti trascina in un viaggio crudo dentro il vuoto esistenziale di un uomo qualunque, ma proprio per questo universale.
Giotto, il protagonista così soprannominato negli anni della scuola elementare, è un personaggio che non si fa amare facilmente: è irrequieto, ipersensibile, a tratti arrogante, sempre in bilico tra l’autocommiserazione e la voglia di riscatto. Si dice emotivamente anestetizzato, ma al contempo è tormentato da un’inquietudine esistenziale. Il Giotto di oggi, che si racconta attraverso la penna di Farge, è un giovane uomo incompiuto, anzi insoddisfatto, che cerca le ragioni della sua frustrazione e di quella rabbia – a tratti incontenibile – che lo consuma nel suo passato.
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In sette capitoli – corrispondenti ai sette caffè del titolo – rivanga nei suoi ricordi: attraverso flashback e analisi spietate rivive alcuni momenti incisivi della sua vita. Ambientato tra Toscana (nella piccola realtà di provincia a Marina di Pisa), il romanzo “breve ma intenso” di Farge ripercorre gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza tra il bullismo e la boxe, lo spaccio e il fanatismo politico di chi era “pronto ad abboccare a qualsiasi idiozia pur di sentirmi parte di qualcosa”. E ancora, gli insoddisfacenti anni dell’università e la tentata carriera da sceneggiatore, abbandonata per il posto fisso in Comune.
“Giotto – 7 caffè su un altro pianeta” non è però un coming of age che segue un ordine temporale. Facendo salti in avanti e indietro nel tempo, sembra quasi di ascoltare un flusso di coscienza del protagonista, che cerca risposte in una serie di “e poi”. In un caleidoscopico vortice di traumi (bullismo, ansia, piccoli fallimenti e figuracce), sogni mai realizzati e una carriera che non decolla, seguiamo il tentativo — ostinato, a metà tra il patetico e il tenero — di Giotto per “diventare qualcuno“. Qualcosa di più di un ragioniere al Comune, qualcuno di diverso dal ragazzo troppo educato che tutti davano per scontato.
Pian piano Giotto sembra far pace con il suo passato. Oggi dice quello che pensa senza filtri e riesce a riscattarsi a suo modo. Si confronta con le persone che lo circondavano nell’infanzia, per rendersi conto di come tutti siano cambiati. La sua ipersensibilità gli permette di riconoscere la sofferenza altrui, di provare tenerezza e voglia di parlarne apertamente (come lui ha bisogno di fare), ma non celando quella leggera soddisfazione nel constatare il fallimento di chi un tempo lo faceva sentire inferiore.
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Quello che caratterizza il personaggio ideato da Farge è il bisogno di riscattarsi: le fasi di depressione, derealizzazione e ansia, ma anche la cecità di chi non coglieva le sue potenzialità gli hanno impedito di affermarsi completamente. Ora, invece, è pronto a rivendicare la propria identità e farsi ascoltare. Restando, però, sempre nel suo piccolo mondo: Giotto si lascia sfuggire molte occasioni che potrebbero dare effettivamente una svolta alla sua vita. Forse perché in realtà è spaventato dal vero cambiamento, che gli impedirebbe di crogiolarsi nelle sue delusioni e frustrazioni, cercando colpe da affibbiare altrui.
L’autore lo scrive chiaramente sin dall’inizio: questa non è una bella storia per cuori fragili, non c’è nessun buonismo o verità preconfezionata, nessuna ricetta della felicità contraffatta. Giotto va avanti come può e come meglio crede. Non è un personaggio esemplare, soprattutto nei rapporti umani. Basti pensare che tra le pagine incontriamo ben 7 donne (sì, sempre come i caffè): Marta, Letizia, Livia, Clara, Alessia, Corinne, Viktoria. Ognuna di loro, in diverse fasi della vita di Giotto, rappresenta un tentativo maldestro di affermazione, di vendetta o di magra consolazione. Ma più che colmare un vuoto, queste “relazioni” sembrano solo mappare meglio i contorni del vuoto esistenziale del protagonista.
Farge riesce a portarci perfettamente nella complessa psicologia del suo personaggio. Ci racconta non solo le ragioni del suo fallimento personale, ma anche aneddoti “straordinari” nella vita di un uomo inevitabilmente ordinario. Riesce a far cogliere le più svariate sfumature della vita di Giotto, facendoci vedere con i suoi occhi e comprendere le sue sensazioni in maniera talmente realistica da essere a tratti innervositi dalle reazioni del suo personaggio. Farge è talmente scrupoloso e preciso nelle descrizioni realistiche da calarsi in un audace racconto di un particolare rapporto sessuale senza filtri.
Seppur romanticamente elusivo in alcuni punti, infatti, questo non è un romanzo per stomaci delicati. Il linguaggio è diretto, a tratti brutale e il disclaimer “non adatto ai minori di 16 anni” non è una posa editoriale: è un avvertimento sincero che l’autore sente di rivolgere ai lettori più giovani. Farge usa la scrittura come un bisturi, sezionando i pensieri più scomodi e le emozioni più torbide del suo personaggio con grande lucidità. Nessun filtro, nessuna morale da pubblicità. Tra le sue pagine c’è solo la vita, nel bene e nel male.
Il tono della narrazione oscilla tra confessione e analisi spietata: nei suoi momenti migliori, riesce a strappare un sorriso; in quelli peggiori, lascia un senso di disagio – o meglio, lascia con l’amaro in bocca. Come il caffè, d’altronde.
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Forse è proprio questo il pregio dell’opera prima di Matteo Farge: non vuole piacere a tutti i costi, non vuole insegnare. Vuole essere ascoltato. L’autore non cerca di salvare Giotto e in questo traspare una particolare onestà. Perché Giotto, in fondo, non vuole nemmeno essere salvato. Vuole solo capire cosa lo ha reso infelice. E se – come lui stesso ammette – “l’eccessiva educazione e il buonismo esasperato sono solo forme di paura”, allora la sua storia è una lunga, estenuante dichiarazione di guerra alla paura di essere se stessi, nel bene e nel male.
Sorprendentemente, il libro si chiude con un ottavo caffè, dedicato ad una speciale Lei: la felicità. Non l’ennesima donna, non chissà quale traguardo, ma una possibilità. Forse irraggiungibile, forse solo rimandata, ma fortemente desiderata. E alla fine dell’ultima pagina, non resta che pensare, come lo stesso autore si augurava nella prefazione: “certo, anche Giotto ne ha passate parecchie”. Ma se lui sopravvive alla tentazione di mandare tutto all’aria e lasciarsi andare, forse ce la possiamo fare anche noi.