Recensione. “Figlia mia”: un film potente nelle intenzioni, meno nell’esecuzione

“Figlia mia” è un film che si propone come un’esplorazione intensa e viscerale dell’identità femminile, della maternità e del legame atavico tra madre e figlia. Ma nonostante l’ambizione e la carica emotiva, il lavoro di Laura Bispuri (reduce dall’interessante “Vergine giurata” del 2015) risulta più costruito che vissuto e più pensato che sentito. Presentato in concorso alla 68ª Berlinale, “Figlia mia” è una pellicola che vorrebbe toccare corde profonde ma lo fa con uno stile che, pur visivamente suggestivo, è troppo meccanico e, quindi, poco fluido.
Al centro della storia c’è Vittoria, una bambina di dieci anni con una chioma rosso fuoco e un animo inquieto, interpretata con sorprendente maturità dalla giovane Sara Casu. Durante un’estate afosa nella Sardegna più brulla e selvaggia, scopre un segreto che le cambierà per sempre la vita: ha due madri. Tina (Valeria Golino), la donna che l’ha cresciuta con amore protettivo, quasi asfissiante, e Angelica (Alba Rohrwacher), madre biologica disordinata e vitale, che l’ha data via appena nata. Rivelato il patto segreto che univa le due donne, si apre un confronto emotivo lacerante, una danza di avvicinamenti e fughe, di accuse e rimpianti. Vittoria, spettatrice e protagonista insieme, si trova a dover decidere chi è, da dove viene, e dove vuole andare.
Il film è costruito come un triplo punto di vista: quello della figlia e delle due madri, ognuna con il proprio dolore e la propria idea di amore. Bispuri cerca il racconto corale ma finisce spesso per appiattire le dinamiche. Golino e Rohrwacher interpretano due archetipi: la madre borghese, razionale ma incapace di lasciare andare, e la madre istintiva, disordinata, figlia di un caos emotivo che però la rende paradossalmente più autentica. Entrambe attrici di esperienza e personalità, non riescono però a dare un vero spessore ai loro personaggi risultando, in più passaggi, ingessate, quasi con il freno a mano tirato. La sola vera rivelazione è Sara Casu, capace di restituire l’inquietudine e la lucidità dell’infanzia senza mai risultare stucchevole.
Ambientato nel suggestivo scenario della Sardegna orientale, il film sfrutta la terra arida e il mare cristallino per costruire una geografia dell’anima. Ma anche qui, il potenziale visivo resta spesso uno sfondo. L’uso insistente della camera a mano, i pedinamenti in stile neorealista e le inquadrature ravvicinate diventano ben presto cliché, privati di reale tensione. “Figlia mia” ha il merito di voler parlare di un’Italia marginale e autentica, e di raccontare un dramma privato che tocca temi universali: maternità biologica contro maternità affettiva, appartenenza e autodeterminazione. Ma finisce per farlo in modo prevedibile, con simbolismi fin troppo scoperti e una drammaturgia priva di sfumature.
“Figlia mia” è un film che parte da premesse forti e necessarie, ma si perde in una costruzione troppo controllata, che lascia poco spazio al mistero e all’imprevisto. Laura Bispuri è una regista accurata ma troppo rigida nel suo approccio alla camera. Si salva la prova straordinaria della giovanissima Sara Casu, vero cuore pulsante del film, per cui vale davvero tessero pubblicamente le lodi. Un’opera che avrebbe potuto essere un pugno nello stomaco, ma che si accontenta di restare nel campo del cinema d’autore “da festival”, pulito e ben confezionato, ma privo di autentico battito. Nel 2018 ha ricevuto diverse candidature al Festival internazionale del cinema di Berlino, all’Orso D’oro, Al Bif&st, ai Nastri d’argento e al Globo d’oro.