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Recensione. “Eden” di Ron Howard: quando l’utopia diventa un inferno tropicale

Sara Paneccasio Posted On 15 Aprile 2025
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Nel cinema di Ron Howard, la realtà è spesso un campo di prova per l’animo umano: lo abbiamo visto in “Apollo 13”, in “Rush”, in “A Beautiful Mind”. Ma con “Eden“, il regista premio Oscar spinge la sua cinepresa verso un confine più selvaggio, letteralmente ai margini del mondo conosciuto, per raccontare una storia vera che ha il sapore del mito: quello degli europei che, negli anni ’30, tentarono di costruire una nuova civiltà su un’isola sperduta delle Galápagos. Il risultato è un survival thriller che intreccia ossessione, idealismo, conflitti morali e tensioni erotiche sotto il sole cocente dell’equatore.

Leggi anche: “La musica nel cinema” di Cristina Cano: un saggio per comprendere il potere invisibile e trasformativo del suono nell’esperienza cinematografica

Il sogno dell’Eden e il suo veleno

Floreana, isola remota dell’arcipelago delle Galápagos. Qui, nel 1929, sbarcano il dottor Friedrich Ritter (Jude Law) e la sua compagna Dora Strauch (Vanessa Kirby), lasciando alle spalle una Germania sull’orlo del collasso per cercare un nuovo inizio in armonia con la natura. La coppia si stabilisce in una capanna spartana, mossa da un’ideologia nichilista e anti-borghese. Ma l’Eden, si sa, non tollera troppa compagnia.

Presto giungono altri coloni: la famiglia Wittmer, con Heinz (Daniel Brühl), sua moglie Margret (Sydney Sweeney) e il loro figlio malato. Ma è con l’arrivo della baronessa Eloise Bosquet de Wagner Wehrhorn (Ana de Armas), seducente e ambigua figura accompagnata da due amanti armati, che l’equilibrio dell’isola collassa. La baronessa sogna di costruire un hotel di lusso, ma ciò che costruisce davvero è un clima di tensione, invidia e sospetto.

La convivenza forzata in un ambiente ostile, le ideologie contrastanti, le pulsioni represse e il peso del passato europeo trasformano l’isola in una pentola a pressione. Quando iniziano a verificarsi misteriose sparizioni, il sogno utopico si dissolve in un incubo paranoico.

Il cast: archetipi in carne e ossa

Ron Howard dirige un cast internazionale che funziona come un ensemble teatrale ben oliato. Jude Law, magnetico e introverso, incarna un Friedrich Ritter cinico e affascinante, idealista ma incapace di gestire il caos che ha contribuito a creare. Vanessa Kirby conferisce a Dora una durezza misurata, fatta di resistenza silenziosa e sguardi carichi di ambiguità.

Ma è Ana de Armas a rubare la scena: la sua baronessa è una femme fatale da tragedia tropicale, sensuale e manipolatrice, ma mai caricaturale. La giovane Sydney Sweeney è convincente nel ruolo della moglie inesperta che assiste alla disintegrazione dei sogni familiari, mentre Daniel Brühl offre una performance sobria e dolorosa, in perfetta tensione tra desiderio di salvezza e disillusione.

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La regia di Ron Howard: tra cronaca e mitologia

Con “Eden“, Howard si avventura in territori insoliti. Abbandona la sua comfort zone per confrontarsi con un materiale narrativo che ha molto più a che fare con Herzog che con Spielberg. E lo fa con mestiere, equilibrio e qualche rischio.

Il regista costruisce un racconto dalla progressione lenta ma inesorabile. La prima parte del film è contemplativa, quasi etnografica: la natura domina, i dialoghi sono ridotti all’essenziale, la tensione monta a piccoli strappi. Poi, nel secondo atto, l’atmosfera si ispessisce: il thriller prende forma, l’utopia si decompone, le relazioni si fanno torbide. Howard è abile nel bilanciare il rigore storico con una narrazione densa di sottotesti politici, sessuali e filosofici.

Le riprese si sono svolte in Australia, scelta logistica e visiva per ricreare il paesaggio selvaggio e arido delle Galápagos. Il set ha messo a dura prova cast e troupe, con condizioni climatiche estreme che hanno aggiunto un livello di realismo quasi documentaristico al film.

La fotografia (curata da Salvatore Totino) è sontuosa: l’isola è un personaggio a sé, bella e ostile, viva e crudele. I contrasti tra luce accecante e ombre profonde riflettono lo stato d’animo dei protagonisti. E la colonna sonora di Benjamin Wallfisch accompagna senza mai sopraffare, alternando minimalismo percussivo a passaggi orchestrali inquietanti.

Le prime recensioni: divisione tropicale

“Eden” ha diviso la critica. Alcuni ne hanno lodato l’ambizione e la profondità tematica, paragonandolo a “The Master” o “The Painted Bird” per la sua capacità di raccontare la natura disturbata dell’essere umano fuori dal contesto sociale. Altri ne hanno criticato il ritmo lento e la mancanza di una conclusione più forte o appagante dal punto di vista emotivo e narrativo.

Su Rotten Tomatoes il film si attesta intorno al 57%, mentre Metacritic lo colloca in una zona “giallo ambra” con un 60/100. In Italia, la critica si è dimostrata più generosa: “Un film anomalo nel panorama hollywoodiano,” ha scritto Cinematografo, “che osa mostrare l’oscurità là dove ci avevano promesso la luce.”

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Una favola nera su fondo di lava

“Eden” non è un film per tutti. Richiede pazienza, attenzione, voglia di lasciarsi coinvolgere da una storia che, più che risposte, offre domande scomode. Ma chi accetta il viaggio, troverà in questo film una riflessione potente sull’illusione del paradiso e sulla natura umana, incapace di liberarsi del proprio inferno anche quando si trova a migliaia di chilometri dalla civiltà.

Un’opera che dimostra come Ron Howard, a oltre quarant’anni dall’esordio, sappia ancora sorprendere, e osare.

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