Recensione. “Eddington”, tra pandemia e populismo: il western digitale di Ari Aster
Con “Eddington“, Ari Aster realizza il suo film più ambizioso, divisivo e disturbante, una parabola sull’America in quarantena che si trasforma in una riflessione impietosa sul potere, la disinformazione e la fragilità collettiva. Presentato a Cannes, il film, scritto e diretto dallo stesso Aster, segna un nuovo capitolo nella carriera dell’autore di “Hereditary”, “Midsommar “e” Beau ha paura”. Qui, il terrore non nasce più dal soprannaturale o dalla psiche individuale, ma dal reale, dalla società, dai social, dal linguaggio stesso. È un western digitale, un horror politico e un thriller satirico che ha il coraggio di parlare del nostro tempo più recente, quello che ancora brucia sotto la pelle. Il risultato è un’opera potente ma imperfetta, visivamente magnetica ma tematicamente sovraccarica, capace di restituire in modo quasi insopportabile il senso di disorientamento che il mondo ha provato nel 2020.
La storia è ambientata nella cittadina fittizia di Eddington, nel New Mexico, durante il lockdown più rigido della pandemia. Le strade sono deserte, i cittadini chiusi in casa, e la paura si è fatta quotidianità. In questo clima di sospensione, lo sceriffo Joe Cross, interpretato da un Joaquin Phoenix ipnotico e febbricitante, inizia a dubitare delle restrizioni. Non crede che il virus sia reale, o almeno non nel suo piccolo angolo di mondo, e considera l’obbligo delle mascherine una minaccia alla libertà personale. Il sindaco Ted Garcia, a cui presta volto e carisma Pedro Pascal, è invece convinto del contrario: segue le regole, difende la scienza, ma la sua posizione lo espone al crescente malcontento della popolazione.
Dopo una rissa in un supermercato scatenata dal rifiuto di indossare la mascherina, Cross comprende che non è solo a pensarla così. Scorge un’opportunità di potere, trasforma la sua ribellione in un manifesto politico, inizia a trasmettere dirette Facebook, si proclama difensore del “popolo libero” e annuncia la sua candidatura a sindaco contro Garcia. È l’inizio della spirale. Aster mette in scena la nascita di un nuovo populismo, nutrito da teorie del complotto e da un bisogno disperato di appartenenza. La città si spacca, le parole diventano armi, e il confronto politico si trasforma in una guerra civile strisciante, combattuta a colpi di like, di fake news e di paranoia.
Aster spinge il racconto verso un crescendo sempre più visionario. Le dirette social diventano i duelli di un nuovo Far West, le sparatorie vengono trasmesse in streaming, e i cittadini di Eddington assistono alla fine della loro comunità come se stessero guardando un reality. Quando l’ordine sociale crolla definitivamente, non si ha la sensazione che la catastrofe sia arrivata, ma che fosse già lì, invisibile, dentro ognuno di loro. È questo il vero orrore di Eddington, l’idea che la fine non sia un evento, ma una condizione permanente.
Il cast è di altissimo livello. Joaquin Phoenix domina la scena con la sua interpretazione più febbrile dai tempi di Joker: un uomo smarrito, divorato dall’ego e dal sospetto. Pedro Pascal costruisce un sindaco fragile, sincero ma impotente, simbolo di una politica che non riesce più a parlare alla gente. Emma Stone è Clara, influencer convertita al complottismo di QAnon, una figura volutamente sfocata che incarna la trasformazione della paura in spettacolo, la fede cieca nell’immagine e nella rete. Accanto a loro, Austin Butler interpreta Eli Graves, leader carismatico di una setta suprematista che promette salvezza e purezza: è il volto oscuro del fanatismo americano.
Con questo film, Ari Aster sposta il suo orizzonte tematico. Dopo aver scandagliato il terrore privato, si confronta con quello collettivo, e lo fa con una lucidità quasi spaventosa. L’orrore di Eddington non è nei mostri né nei fantasmi, ma nel linguaggio stesso, nella rete di informazioni e immagini che ci tiene connessi e prigionieri. È un film sull’inquinamento del discorso pubblico, sulla spettacolarizzazione della politica e sulla trasformazione del dolore in contenuto. La città di Eddington diventa un laboratorio di contagio morale, una Springfield oscura dove ogni abitante è vittima e carnefice del proprio delirio mediatico.
Aster non risparmia nulla ma affronta di petto tutti i temi che hanno segnato l’America contemporanea – la pandemia, la disinformazione, il populismo, i movimenti suprematisti, la memoria di George Floyd, l’attivismo da social, l’ossessione per le armi e la paranoia complottista. Eddington è un film-mondo, e proprio per questo rischia di implodere sotto la propria ambizione. Ma l’eccesso fa parte della sua natura. È un film che vuole inglobare tutto, come un feed che non si ferma mai. La regia alterna piani lunghi e ipnotici a frammenti digitali, droni e riprese amatoriali, come se la realtà fosse diventata un videogioco. L’estetica del western si fonde con quella dei social media. I revolver sono smartphone, i duelli avvengono in diretta, e l’idea stessa di verità si dissolve nella rappresentazione.
Ciò che rende “Eddington “così inquietante è la sua verosimiglianza. Il virus biologico è solo il punto di partenza, quello che davvero contagia è l’immagine, la parola, la paura. In questo film, l’infezione passa attraverso lo sguardo, e chi guarda diventa parte della malattia. Aster sembra suggerire che il male del nostro tempo non è più l’essere osservati, ma non avere nulla di autentico da offrire a chi ci osserva.
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Pur nella sua grandezza visiva e nella forza delle idee, “Eddington “è un film imperfetto. L’ampiezza dei temi, la densità simbolica e la volontà di colpire tutto e tutti rendono il racconto a tratti disomogeneo, talvolta persino dispersivo. È un’opera che si regge più sulla potenza delle intuizioni che sulla solidità della costruzione narrativa. Eppure, anche nei suoi momenti più caotici, resta impossibile distogliere lo sguardo. Aster continua a praticare un cinema del trauma, ma qui lo trasforma in un atto politico: un gesto di disperazione lucida che fotografa la follia collettiva di un mondo che si osserva mentre cade a pezzi.
Quando scorrono i titoli di coda, non si prova paura per ciò che il film ha mostrato, ma per ciò che ha insinuato: la sensazione che l’orrore vero non sia sullo schermo, ma dentro lo spettatore, nella sua abitudine a guardare tutto come spettacolo. Eddington è un film sul logoramento della coscienza collettiva, sulla trasformazione della verità in rumore, della fede in sospetto, della memoria in archivio digitale. È un’opera eccessiva, scomposta, ma necessaria: un incubo che ci ricorda quanto sia sottile la linea tra informazione e follia, tra libertà e delirio.
Ari Aster firma così il suo film più politico e disperato, un western della mente in cui l’America non si specchia più nei suoi miti, ma nei suoi feed. E noi, come la folla invisibile che popola la città di “Eddington”, continuiamo a guardare, a commentare, a dimenticare. Perché il vero orrore non è la fine del mondo, ma l’indifferenza con cui la osserviamo in diretta.



