Recensione. Dropkick Murphys – For the People
Con “For the People“, i Dropkick Murphys tornano in grande stile. Come al solito non siamo in presenza di semplice album, inteso come mero lavoro in studio, ma dell’ennesimo manifesto punk intriso di lotta, fierezza e appartenenza. La band di Quincy, Massachusetts, alza il volume e la voce riaffermando con forza il proprio impegno dalla parte dei più deboli, “per la gente”, appunto. Il risultato è uno dei dischi più energici, autentici e politicamente infuocati degli ultimi anni. Dimenticate le atmosfere folk e le ballate acustiche degli ultimi lavori che avevano anche lasciato intendere una flessione artistica e d’ispirazione (per quanto, comunque, sempre degli ottimi prodotti) qui si torna ai cori da pugno chiuso, al sudore delle barricate, agli abbracci.
Dopo “This Machine Still Kills Fascists” (2022) e “Okemah Rising” (2023) – i Murphys archiviano l’omaggio a un certo tipo di sound a stelle e strisce e rimettono in moto quegli amplificatori a cui avevano abbassato il volume. Su questo disco vengono raccontate le ingiustizie sociali e viene data voce a chi voce non ha, anche per ricordare che il punk non è solo uno stile, ma una posizione politica. Aspetto, questo, troppo spesso sottovalutato o messo da parte. In un’America che ha appena riconsegnato la Casa Bianca a Donald Trump, “For the People” è una presa di posizione netta, un disco che non cerca di piacere a tutti, ma parla a chi sente ancora il bisogno di indignarsi.
Fin dal brano d’apertura, “Who’ll Stand With Us?” il tono è chiaro. Nessuna metafora, nessun giro di parole, è una chiamata alle armi, una richiesta di solidarietà tra chi è stanco di subire. L’impatto sonoro è quello di un cazzotto sul tavolo. Chitarre spigolose, ritmica incalzante, cori rabbiosi: è il DNA dei Dropkick Murphys distillato in tre minuti di rabbia lucidissima. Tra gli episodi più potenti spiccano “Longshot” (con gli Scratch) e “Bury the Bones” (con i Mary Wallopers), due inni che rielaborano il folk irlandese trasformandolo in una miccia pronta a esplodere. Banjo e mandolini non sono vezzi estetici ma strumenti di battaglia al servizio di una narrazione popolare e collettiva. Il risultato? Sudore, cori da birreria e una tensione politica sempre latente ma pronta a sfociare in rivolta.
La parte centrale dell’album rallenta solo per affondare meglio il colpo. “Kids Games” è un’esplosione di sarcasmo amaro. “Sooner Kill ’Em First” è feroce, tagliente, un’istantanea punk che sbeffeggia i paradossi del presente. E mentre tutto si fa più assurdo, i Dropkick Murphys ti ricordano che ridere è l’ultima forma di resistenza. “Chesterfields and Aftershave” e “Streetlights” sono brani più asciutti, privi di fronzoli, solo emozioni crude. La prima è un omaggio dolceamaro al passato familiare, la seconda una dedica ai padri assenti, cucita con melodie semplici ma disarmanti. Qui la band mostra il suo lato più umano.
Nella seconda metà, il ritmo accelera di nuovo. “The Big Man“, dedicata al chitarrista dei Pennywise Fletcher Dragge, è un’esplosione di adrenalina e rispetto. “Fiending for the Lies” è una carica cieca, una cavalcata su un ponte che scricchiola sotto il peso della verità. Ma è con “The Vultures Circle High” che arriva la sorpresa più emozionante: la voce storica di Al Barr fa ritorno per una comparsata breve ma potentissima, tanto da sembrare un rientro in grande stile. A chiudere il disco è “One Last Goodbye” (Tribute to Shane), un addio struggente a Shane MacGowan, voce leggendaria dei Pogues. Il brano, arricchito dagli Scratch, è una veglia collettiva, un brindisi pieno di gratitudine e malinconia. Non serve conoscere ogni parola, basta ascoltarla per sentirne il peso.
“For the People” è un lavoro solido e compatto. Matt Kelly e Kevin Rheault alla sezione ritmica suonano come un metronomo mentre Tim Brennan, Jeff DaRosa e James Lynch si alternano tra chitarre, fiati e arrangiamenti folk con una maestria che non fa mai il verso a se stessa. La produzione, pur rimanendo pulita, conserva il graffio delle origini. Questo lavoro non reinventa il punk “celtico” (che brutta definizione) ma lo ribadisce con rinnovata convinzione. È un disco necessario che parla di rabbia, dignità e comunità in tempi in cui tutto sembra invece spingere verso l’indifferenza. I Dropkick Murphys non sono cambiati, sono però più lucidi, più vivi che mai. E in un mondo che sembra sempre più disumano, il loro grido ci ricorda che stare insieme – e incazzarsi insieme – è ancora possibile. Let’s Go Murphys!



