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Recensione. Deftones – Private Music”: come essere sé stessi senza snaturarsi a 30 anni dall’esordio

Federico Falcone Posted On 27 Ottobre 2025
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I Deftones, con “Private Music“, riaffermano la loro capacità di ridefinire, ancora una volta, i confini del proprio universo sonoro, tra rinnovamento e consolidamento di un trademark fortemente identitario. Il decimo album della band di Sacramento è un lavoro maturo, solido, intenso, forse il migliore dai tempi di “Koi No Yokan”. È la prova definitiva che Chino Moreno e soci sanno ancora essere contemporanei senza inseguire mode, riconoscibili ma non autoreferenziali, capaci di spingersi oltre il proprio mito senza rinnegarlo.

Dopo cinque anni di silenzio discografico seguiti a “Ohms”, l’annuncio del nuovo disco è arrivato quasi di sorpresa. Pochi teaser durante i live, due singoli ravvicinati, e poi l’uscita, il 22 agosto 2025, sotto la produzione di Nick Raskulinecz. Il produttore del doppio capolavoro “Diamond Eyes” e “Koi No Yokan” torna dunque in cabina di regia, e la scelta non è casuale poiché era necessario qualcuno capace di bilanciare la furia istintiva del gruppo con quella dimensione sognante che ne è sempre stata la cifra più profonda.

L’accoglienza è stata trionfale, o quanto di più vicino. La critica internazionale ha salutato “Private Music” come un ritorno alla forma più ispirata dei Deftones, mentre i fan — dopo lo scetticismo iniziale per l’assenza di Terry Date — hanno riconosciuto nel disco quella rara fusione di potenza e introspezione che aveva reso leggendari i lavori dei primi Duemila. Come sempre, la band si muove nel territorio ambiguo fra luce e ombra, sensualità e violenza, sospensione e catarsi. “Private Music “è una riflessione sulla trasformazione, sulla muta interiore, sulla capacità di cambiare pelle senza cambiare anima. È un album che vive negli spazi tra le note, nei silenzi che separano un respiro da un urlo, un vortice da una linea melodica.

Il viaggio comincia con “My mind is a mountain”, brano d’apertura e primo singolo, che in meno di tre minuti condensa tutta l’essenza del disco. Riff serrati, batteria puntinistica di Cunningham, e una linea vocale che si arrampica come una mente in ascesa. “I climb myself to disappear”, canta Chino, e sembra una dichiarazione di poetica. Subito dopo arriva “Locked Club”, claustrofobica e febbrile, costruita su pattern ritmici ossessivi e synth che sembrano provenire da un rave industriale. Qui Moreno assume il tono del predicatore apocalittico, sussurrando e urlando nello stesso respiro.

Con “Ecdysis” — parola che significa “muta” — si entra nel cuore simbolico dell’album. È una traccia che cresce lentamente, fino a deflagrare in un ritornello luminoso: “I shed the noise to find the song beneath”. I Deftones parlano di sé, ma anche dell’ascoltatore, invitato a spogliarsi del superfluo per riscoprire l’essenza. “Infinite Source” è invece un tributo al loro DNA più classico con riff granitici, basso pulsante e quell’arte di mescolare aggressione e dolcezza che nessun’altra band è mai riuscita a replicare con tanta naturalezza.

Nel cuore dell’album si apre un respiro più etereo. “Souvenir” rallenta i tempi, si avvolge di synth e riverberi, evoca lo shoegaze senza imitarlo. È la parte più introspettiva del disco, che trova un suo equilibrio perfetto in “I Think About You All The Time”, brano malinconico e contemplativo, quasi dream pop, ma reso inconfondibilmente “Deftones” dal timbro di Moreno e dalle trame di Carpenter.

La seconda metà si incupisce e si fa più fisica. “CXz” è un inno da stadio costruito su chitarre taglienti e un ritornello che sembra fatto per esplodere dal vivo, mentre “Milk of the Madonna”, secondo singolo, unisce spiritualità e dissacrazione, estasi e peccato: “Holy fire on my tongue / I drink the pain divine”. È uno dei momenti più intensi del disco, un vortice che parte da una meditazione e si chiude in un collasso elettrico.

“Cut Hands” torna su coordinate più scure e minimali, con una tensione trattenuta che ricorda i momenti più alieni di Gore, mentre “~Metal dream” fonde i due poli dell’album in un continuo gioco di contrasti. La chiusura con “Departing the Body” è quasi mistica, un lento disfacimento, un dissolversi del suono nel silenzio, come se la band ci accompagnasse fuori dal proprio mondo per lasciarci sospesi tra due dimensioni.

Dal punto di vista stilistico, “Private Music” rappresenta l’equilibrio perfetto fra l’istinto nu metal delle origini e la raffinatezza atmosferica che i Deftones hanno sviluppato negli anni. Carpenter torna a imporsi con un suono pesante ma disciplinato, mentre Delgado firma alcune delle sue migliori tessiture elettroniche, vere protagoniste nell’economia dei brani. Cunningham resta una macchina di groove, mentre Moreno, più misurato, ma mai meno emotivo, canta come un uomo che conosce bene il peso della propria voce.

Trent’anni dopo “Adrenaline”, i Deftones non cercano più di sorprendere, ma di risuonare. “Private Music” è un disco che non inventa, ma consolida, non rompe, ma costruisce. Eppure riesce a essere sorprendentemente vitale, perché parla il linguaggio del tempo, quello interiore, non quello cronologico. È il suono di una band che ha imparato a convivere con i propri fantasmi, a trasformarli in arte, e a farlo con una grazia che pochi possono permettersi. Non sarà un capolavoro assoluto, ma è un album di classe, coeso, ispirato, il ritratto perfetto dei Deftones nel 2025.

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