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Recensione. Dai trofei di guerra ai buoni sentimenti: l’imbarazzante metamorfosi di “Predator: Badlands”

Taddeus Harris Posted On 5 Novembre 2025
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È un peccato doverlo dire in questo moto, così netto, ma “Predator: Badlands” è un film tristemente e tragicamente vuoto nello spirito. Un prodotto industriale così depotenziato e politicamente corretto da sembrare uscito da una catena di montaggio, più che da un set cinematografico, quasi appartenesse a quell’onda incolore che tutto vuole e niente ottiene. Dan Trachtenberg, che con “Prey” aveva dato nuova linfa alla saga, qui si arrende all’inerzia del fan service e alla tentazione di rendere gli Yautja, che un tempo erano predatori mitologici e brutali, protagonisti empatici, quasi buoni, perfino teneri. Il risultato è un Predator senz’anima, un blockbuster che si crede maturo ma finisce solo per sembrare addomesticato.

Il film si apre con una scritta altisonante: “Gli Yautja non sono preda di nessuno. Sono predatori di tutti”. Are you serious? Parole che promettono sangue e caccia ma che anticipano una parabola morale sulla diversità e l’accettazione. Il protagonista è Dek, un giovane Yautja considerato debole dal suo clan per un eccesso di empatia. Suo padre, Njohrr, capo brutale e inflessibile, lo condanna a morte perché tra i cacciatori non c’è posto per i sentimenti. A salvarlo vi è solamente il fratello maggiore Kwei, che lo lascia fuggire verso Genna, un pianeta remoto dove vive la creatura più temuta della galassia, cioè il Kalisk.

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ATTENZIONE: SPOILER

Su Genna, Dek incontra Thia (Elle Fanning), una sintetica della Weyland-Yutani sopravvissuta a un disastro di missione, e un piccolo essere ibrido, Bud, che si unirà alla coppia in una caccia che è insieme viaggio iniziatico e riflessione sulla diversità. L’obiettivo è chiaro, uccidere il Kalisk per riscattarsi. Ma lungo la strada Dek scoprirà che il vero nemico non è la bestia, bensì il codice d’onore spietato della propria razza. In un finale che vorrebbe essere commovente ma risulta prevedibile, Dek sacrifica la propria preda per salvare Thia, rinunciando al ritorno a casa e scegliendo l’esilio.

Il regista Dan Trachtenberg, già autore del convincente “10 Cloverfield Lane” e del sorprendente “Prey”, firma qui il suo film più ambizioso e, paradossalmente, più anonimo. Nonostante la confezione spettacolare e un impianto visivo sontuoso, il pianeta Genna è un tripudio di flora carnivora e animali luminescenti degni di Avatar, “Badlands” è un film che non osa mai davvero. Dimitrius Schuster-Koloamatangi, sotto strati di prostetici, offre un Dek discreto ma mai incisivo; Elle Fanning porta un po’ di calore umano al ruolo della sintetica Thia, ma la sua presenza è quasi fuori tono, troppo disneyana per un mondo nato nel fango e nel sangue. Il comprimario Rohinal Nayaran (Bud) completa il trio con il classico “comic relief” da merchandising.

Il problema di “Predator: Badlands” non è tanto la scelta di umanizzare il mostro, operazione che, sulla carta, poteva anche risultare interessante, quanto il modo goffo e artificioso in cui lo fa. L’epica tribale e la brutalità che avevano reso grande il film di McTiernan (1987) sono sostituite da dialoghi moralisti, battutine da buddy movie e una sovrabbondanza di buoni sentimenti. Laddove “Prey” trovava un equilibrio tra essenzialità narrativa e tensione visiva, “Badlands” implode sotto il peso del suo stesso world-building. L’universo degli Yautja viene espanso con un’attenzione quasi maniacale (nomi propri, rituali, gerarchie, linguaggi) ma a scapito del ritmo e dell’atmosfera. Tutto è raccontato, niente è evocato. Ogni mistero è spiegato fino all’ultimo dettaglio, come se il film temesse di lasciare lo spettatore nel dubbio.

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Il tono generale ondeggia tra l’avventura familiare e la space opera moralista: un ibrido che finisce per non convincere nessuno. Il PG-13 imposto dalla Disney (nuova proprietaria dei 20th Century Studios) annulla ogni ombra di violenza o sensualità, trasformando la caccia più spietata del cinema in una parabola di inclusione che sembra scritta da un algoritmo. Visivamente, certo, Trachtenberg si difende. La fotografia di Jeff Cutter è notevole, i panorami alieni sono suggestivi e alcune sequenze d’azione, come il duello nella foresta luminescente, mostrano un gusto estetico sopra la media. Ma anche in questo caso tutto è sterilizzato, privo di rischio, con la sensazione costante di assistere a un film “approvato per tutti”.

La colonna sonora di Henry Jackman mescola sintetizzatori e percussioni tribali, ma non riesce a evocare la tensione primordiale di Alan Silvestri. E quando l’azione si interrompe per lasciare spazio a dialoghi sulla “famiglia che scegli, non quella in cui nasci”, ci si accorge che “Predator: Badlands” non è altro che un Guardiani della Galassia travestito da fantascienza muscolare. In un’epoca in cui i franchise cercano disperatamente di reinventarsi, questo capitolo rappresenta il caso emblematico di un brand svuotato della sua ragion d’essere. Nel tentativo di renderlo più accessibile, più inclusivo, più vendibile, Trachtenberg e la Disney gli hanno tolto proprio ciò che lo rendeva unico, quegli elementi di paura, violenza rituale, e ambiguità morale.

“Badlands” non è un film brutto nel senso tecnico del termine, perché comunque è ben girato, ben recitato e ben confezionato, ma è un film inutile, privo di identità. Un “Predator” senza zanne, che ringhia piano per non spaventare nessuno. E se davvero questo è il futuro del franchise, allora forse l’unico vero predatore rimasto è quello che, dal 1987, continua a cacciare nei nostri ricordi.

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