Recensione (con spoiler). “Iddu”: la realtà è un fatto, non un punto di partenza
Uscito da pochi giorni al cinema, “Iddu” è un film “liberamente ispirato” alla vita di Matteo Messina Denaro, l’ultimo superlatitante della mafia siciliana, catturato il 16 gennaio del 2023 e morto il 25 settembre dello stesso anno all’ospedale San Salvatore dell’Aquila. Per questo lavoro i registi siciliani Fabio Grassadonia e Antonio Piazza hanno potuto contare su due tra gli attori italiani più celebrati degli ultimi anni, Elio Germano e Toni Servillo. A completare il cast Daniela Marra, Barbara Bobulova, Fausto Russo Alesi, Giuseppe Tantillo, Antonia Truppo e Tommaso Ragno.
ATTENZIONE: SPOILER
Al contrario di quello che si potrebbe pensare, la pellicola non è però incentrata su una fase particolare della vita di Messina Denaro. Attraverso una serie di flashback, infatti, i registi tessono una trama sviluppata su una narrazione aneddotica tramite la quale portare lo spettatore a conoscenza di alcuni episodi chiave dell’infanzia e dell’adolescenza di “U Pupu” (uno dei tanti soprannomi con cui era conosciuto il boss). Scelta coraggiosa poiché i continui sbalzi temporali, che avrebbero lo scopo di fornire almeno un quadro indicativo della storia personale del mafioso, in realtà sono trattati superficialmente per ovvi limiti di spazio a disposizione. Vengono accennati partendo dalla fine e non da ciò che accade prima e, per questo, poco esaustivi sebbene comprensibili agli occhi del pubblico.
Il rapporto col padre, duro oltre i limiti dell’estremo, è spunto per comprendere meglio come violenza, sangue e sopraffazione abbiano rappresentato le fondamenta del pensiero e del modus operandi dell’ex superlatitante. Il genitore, che all’inizio del film vediamo morire in un letto allestito dentro una stalla, circondato da buio, solitudine e pecore belanti, è artefice e forgiatore della disumanità di Messina Denaro: è lui a indurlo a sgozzare un agnello in quello che sembra, a tutti gli effetti, un rituale di passaggio dall’età dell’innocenza a quella adulta, ed è sempre lui a spingerlo a fargli uccidere e bruciare uno dei suoi amici, presunto reo della perdita di un carico di cocaina. Due episodi in cui la fragilità del figlio non vacilla, però. Ma è sempre l’ex superlatitante che, vaneggiando la presenza del padre nel mentre commette l’ennesimo reato, afferma che se lui (il genitore) è morto come una pecora, egli invece sta facendo la fine del sorcio. Il riferimento è alla prigionia casalinga, dalla quale non osa muoversi.
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Elio Germano e Toni Servillo non li scopriamo di certo oggi. Tra le punte di diamante del cinema italiano danno vita a una prova maiuscola, l’uno nei panni del superlatitante e l’altro in quelli di Catello Palumbo, ex politico che, dopo aver scontato sei anni di reclusione nel carcere di Cuneo, prova a rifarsi una nuova vita. Intercettato dal nucleo investigativo dei carabinieri e messo di fronte a una scelta impossibile, si trova a collaborare con loro per sgominare Messina Denaro. Da quel momento inizia una corrispondenza a suon di pizzini, resa possibile da una strutturata e capillare rete di contatti e uomini al servizio del boss. La sorella Stefania conduce una vita malavitosa e anche lei prova a tenersi in contatto col fratello che, dal canto suo, si nasconde con l’aiuto di una complice che gli scrive i messaggi e, all’atto pratico, le fa da spalla destra nell’esercizio delle sue mansioni e funzioni da criminale.
Pur avendolo anticipato, abbiamo svelato già troppo, però preferiamo comunque non andare avanti essendo il film uscito da pochi giorni. “Iddu” non ripercorre fedelmente le tappe dell’esistenza di Messina Denaro e neanche è incentrato su un episodio in particolare, si muove tra le pagine del tempo e della storia per raccontare circostanze controverse e accadimenti drammatici in una Sicilia flagellata dalla mafia. Grassadonia e Piazza scrivono, prima dell’avvio della pellicola, che “la realtà è un punto di partenza, non la destinazione“.
Concetto, questo, che però traballa di fronte a una storia vera, realmente accaduta, e di cui si conoscono molti dei protagonisti coinvolti. La realtà sarà anche un punto di partenza ma è soprattutto un fatto, per cui disorienta non poco questa dichiarazione che, agli occhi dei più maliziosi (ma neanche tanto), suona come un evidente “excusatio non petita, accusatio manifesta“, una sorta di giustificazione di fronte a licenze narrative che, va da sé, non possono né potranno mai mettere tutti d’accordo. Una dichiarazione ruffiana per quanto di queste vicende conosciamo molto ma non tutto, ed ecco perché comunque è lecito che i registi, nella costruzione di questa sceneggiatura, abbiano voluto dare una prospettiva ulteriore.
Tutti questi elementi però non bastano a sorreggere un film che non ci è sembrato niente di più e niente di meno di una pellicola con sua identità, ben recitata e con temi delicati e quanto mai attuali, compresi i rapporti tra lo Stato e la mafia e la presenza della massoneria in più livelli della società civile. Un buon lavoro, da sufficienza.