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Recensione. “Ángela”: su Netflix il dramma della violenza domestica. Ma è un’occasione mancata…

Taddeus Harris Posted On 5 Ottobre 2025
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Nonostante le buone intenzioni e un tema di enorme rilevanza, “Ángela” non riesce a trasformare la sua materia incandescente in un vero shock emotivo. Sei episodi da cinquanta minuti, privi però di quelle suggestioni che dovrebbero attraversare un thriller psicologico di questo tipo. Il risultato è una serie curata, sì, ma fredda, come se il dolore della protagonista fosse filtrato da uno schermo troppo lucido per ferire davvero.

Dietro il titolo, si nasconde la storia di Ángela Recarte Tomasena, donna che sembra vivere un’esistenza invidiabile. Una casa perfetta, un marito premuroso, due figlie adorabili. Ma la patina di serenità si incrina presto, rivelando una realtà di violenze fisiche e psicologiche subite dal marito Gonzalo (Daniel Grao), uomo affascinante solo in apparenza, ossessionato dal controllo e dall’immagine pubblica. Quando nella vita di Ángela riemerge Eduardo (Jaime Zatarain), ex compagno di scuola e potenziale via di fuga, la donna intravede una speranza. Ma anche quella possibilità si trasforma presto in un’illusione. L’inganno si infittisce, la fiducia evapora, e Ángela si ritrova in un labirinto di manipolazioni in cui la linea tra realtà e paranoia si fa sempre più sottile.

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Verónica Sánchez regge la serie sulle spalle, interpretando una protagonista ferita ma mai del tutto spezzata. Il suo personaggio vive di sfumature. Non è un’eroina, ma una donna spaventata, contraddittoria, intrappolata in un sistema di violenza tanto invisibile quanto pervasivo. Accanto a lei, Grao costruisce un antagonista inquietante nella sua normalità, mentre Zatarain incarna la doppiezza di chi promette salvezza ma porta altra distruzione. Completano il cast Lucía Jiménez, nel ruolo dell’amica e confidente Esther, e una regia di Norberto López Amado (qui chiamato Tito López-Amado) che preferisce la pulizia visiva all’immersione psicologica.

Eppure, è proprio qui che “Ángela” inciampa. La serie ambisce a essere un gioco di specchi — un racconto paranoico in cui spettatore e protagonista condividono il dubbio — ma finisce per rivelarsi troppo, troppo presto. La sceneggiatura non osa, non rischia, tutto viene spiegato, chiarito, sottolineato. Le ambiguità si dissolvono e con esse la tensione. Quando arriva la resa dei conti finale, il colpo emotivo si è già smorzato, e la paura si è trasformata in prevedibilità.

Il remake spagnolo dell’inglese Angela Black tenta di adattare il racconto al proprio contesto, ma lo fa senza trovare un’identità autonoma. Manca la vertigine, quella sensazione di disorientamento che rende memorabili i grandi thriller domestici. Anche la regia, per quanto elegante, appare distante. Tutto è troppo ordinato, troppo composto per trasmettere il caos interiore della protagonista.

Resta, però, una nota di merito: “Ángela” non banalizza il tema della violenza domestica. Mostra come essa possa annidarsi nelle pieghe del quotidiano, nei silenzi, negli sguardi, nei gesti di controllo più che nei pugni. E sottolinea con lucidità quanto sia difficile per una donna farsi credere, trovare un sostegno reale, riappropriarsi della propria voce.

Siamo in presenza di una serie tv che si guarda con interesse ma non si vive fino in fondo. Ha il coraggio del tema ma non quello della forma, la bravura di un cast solido ma la freddezza di una scrittura troppo compiaciuta. È un thriller che racconta l’abuso, ma non lo fa sentire sulla pelle. Resta fuori dalla ferita che vorrebbe mostrare. Un’occasione solo parzialmente colta, che conferma una lezione semplice ma sempre valida: la verità, sullo schermo come nella vita, non si costruisce con la perfezione, ma con le crepe.

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