• Musica
  • Cinema
  • Entertainment
  • Teatro
  • Speciali
  • Interviste
  • Libri
  • Attualità
  • News
  • A spasso nel tempo
  • Musica
  • Cinema
  • Entertainment
  • Teatro
  • Speciali
  • Interviste
  • Libri
  • Attualità
  • News
  • A spasso nel tempo
Home » Cinema Featured

Recensione. “28 Anni Dopo” non è solo un sequel, è il miglior film post-apocalittico degli ultimi anni

Taddeus Harris Posted On 29 Giugno 2025
0


0
Shares
  • Share On Facebook
  • Tweet It

Ventitré anni “28 giorni dopo“, Danny Boyle e Alex Garland tornano insieme per rinnovare la saga che venne avviata in una Londra deserta, contaminata ed evacuata dopo la diffusione di un virus letale. Dopo quel capolavoro che fu il capitolo sopra citato, Boyle riprende in mano la macchina da presa con una visione ancora più matura e consapevole della propria cifra stilistica, mentre Garland affina il suo sguardo di sceneggiatore intellettuale e inquietante. Un connubio straordinario, capace di dare vita a un film di altissimo livello. In questo nuovo capitolo l’originale tensione claustrofobica lascia spazio a un respiro più ampio: non una semplice escalation di violenza, ma un’indagine sul tempo, la memoria, il trauma collettivo.

Che esca dopo una pandemia non può essere una semplice coincidenza né casualità, e forse anche questo ha alimentato l’attesa della pubblicazione sul grande schermo. “28 anni dopo” conquista fin dalle prime sequenze anche e soprattutto per la sua drammaticità. Non si tratta di una semplice operazione nostalgia, ma della rinascita di un universo narrativo capace di fondere horror, mitologia contemporanea, critica sociale e riflessione esistenziale con una coesione e una potenza rara nel cinema mainstream. Tutt’al più senza lasciarsi cullare dai cliché del genere e dai paradigmi ultrastereotipati del cinema di settore.

Leggi anche: Squid Game 3: sei episodi, zero pietà. Il gioco finale è iniziato

In una Gran Bretagna isolata dal resto del mondo, dilaniata dal virus della Rabbia, vive e sopravvive Spike (Alfie Williams), ragazzo cresciuto su Holy Island in una comunità che è un crocevia tra un villaggio medievale e un rifugio tecnologicamente povero. Accompagnato dal padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson), si prepara a una prova di iniziazione con una missione che lo porterà verso la terraferma, contaminata da una rabbia mutata, più lenta ma astuta, a metà fra bestia e uomo. Un’evoluzione malsana, violenta, calcolatrice. Durante il viaggio, Spike compie la sua prima uccisione, sperimenta la fragilità umana, il dolore e la perdita quando la madre, Isla (Jodie Comer), lotta contro una malattia degenerativa. L’incontro con il dottor Kelson (Ralph Fiennes) segna però una svolta: in un santuario costruito con cumuli di ossa, Kelson incarna la saggezza oscura di un uomo che affronta morte e il tempo senza concessioni. È qui che Spike comprende che il vero orrore non risiede tanto negli infetti quanto nella disumanizzazione di una comunità allontanatasi dalla compassione.

Ambientato principalmente su Holy Island, il film sfrutta isole remote, coste frastagliate e paesaggi aspri per ricreare un microcosmo sospeso nel tempo ma anche decadente, spettrale, quasi gotico. Quando Spike si spinge nella terraferma, la pellicola si apre in orizzonti brulli, città abbandonate e strade spettrali, creando un contrasto tra isolamento umano e vastità spaventosa. Non più solo infetti rabbiosi, emergono i Slow‑Lows, creature striscianti e primitive, e gli Alpha, predatori organizzati e quindi intelligenti e audaci, meno istintivi e irrazionali. Il film riflette sull’idea che la sopravvivenza può deformare l’umanità più del virus stesso. La barbarie delle comunità isolate con le loro leggi tribali, diventa lo specchio inquietante di un’umanità pronta a sacrificare l’empatia sull’altare della paura.

La fotografia di Anthony Dod Mantle mescola riprese con smartphone (iPhone modificati), contrasti forti, grana sporca, e stili disparati – dal documentaristico alla fiaba nera. Il montaggio, deciso e sincopato, modula sbalzi emotivi e visivi, immergendo lo spettatore in un’esperienza viscerale. Boyle unisce la potenza dell’ultra Panavision 70 con la crudezza low‑budget dei primi cult, rafforzata da stacchi allucinogeni e montaggi shockanti. Dettagli, quelli che abbiamo citato, ampiamente esplorati e dibattuti nei mesi che hanno preceduto l’uscita del film, tanto da incuriosire anche gli addetti ai lavori che hanno potuto così sperimentare un modo alternativo di fare cinema. Del film, in effetti, non sapevamo moltissimo se non le modalità di ripresa. Curiose, certamente, ma davvero funzionali e ben riuscite.

“28 anni dopo” è esplicitamente politico. La quarantena, l’isolazionismo, l’eco della Brexit e del post‑pandemia non sono temi di contorno ma metafore opprimenti di un mondo chiuso su se stesso. Spike rompe la dicotomia puro‑contaminato, dimostrando che il vero sbaglio non è la presenza del virus, ma il negare la morte, la cura, la vulnerabilità. Quante polemiche, di questo genere, abbiamo letto negli ultimi anni. Alcuni momenti si abbandonano un po’ troppo al simbolismo (bandiere in fiamme, clip di guerra, citazioni poetiche talvolta troppo enfatiche) però fa parte del gioco.

Leggi anche: “The Walking Dead: Dead City”: Maggie, Negan e il viaggio estremo nel cuore marcio di Manhattan

Nel panorama affollato di sequel, reboot e nostalgie cinematografiche, “28 Anni Dopo” si distingue perché horror sorretto da riflessioni sul trauma collettivo e sull’identità post‑catastrofe. Non è un horror convenzionale e nemmeno un sequel riciclato ma è un’opera intensa, ambiziosa e capace di scuotere e dividere gli spettatori. Siamo in presenza di un film che è anche una dichiarazione di potenza artistica, che guarda al passato senza restarne intrappolato, capace di reinventare il genere tracciando nuovi confini tra mostruosità e umanità. Ricco di immagini disturbanti, riflessioni taglienti, interpreti convincenti e ritmo narrativo imprevedibile Un ritorno memorabile di Boyle e Garland, memorabile come due decenni fa.

Correlati

0
Shares
  • Share On Facebook
  • Tweet It




Tutto pronto per la XXII edizione del Pontinia Rock & Blues Festival: il programma della tre giorni
Read Next

Tutto pronto per la XXII edizione del Pontinia Rock & Blues Festival: il programma della tre giorni

  • Popular Posts

    • 1
      Il trailer di "Una sconosciuta a Tunisi": Mehdi Barsaoui racconta nuovi inizi e temi attuali
    • 2
      Un nuovo mistero firmato Kate Morton: "Il giardino dimenticato"
    • 3
      "Volevo sognarmi lontana", il nuovo romanzo di Clizia Fornasier: donne e solitudine, radici e sogni

  • Seguici sui Social


  • Home
  • Chi siamo
  • Contatti
  • Home
  • La redazione
  • Privacy Policy
© Copyright 2024 - Associazione Culturale EREBOR - Tutti i diritti riservati
Press enter/return to begin your search