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Perché continuiamo a leggere i classici (anche quando non ci piacciono)

Licia De Vito Posted On 13 Ottobre 2025
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C’è sempre un momento, in ogni biografia di lettore, in cui un classico ci respinge. Succede presto, di solito: un pomeriggio d’estate, quando un insegnante ci impone “I promessi sposi” o “La Divina Commedia” e noi ci chiediamo — con la legittima insofferenza dei sedici anni — quale senso abbia leggere un testo scritto secoli fa, in una lingua che non parliamo più. Eppure continuiamo a farlo. Continuiamo a leggere, a ristampare, a citare i classici.

A renderli, paradossalmente, immortali. La risposta più sbrigativa — quella dell’estetica canonica — dice che i classici sopravvivono perché sono “belli”. Ma la bellezza, in letteratura, è un concetto tutt’altro che neutro. È una costruzione storica, un accumulo di giudizi, di valori, di istituzioni che decidono cosa è degno di restare e cosa no. Leggere i classici, allora, non significa solo confrontarsi con un capolavoro ma significa anche entrare in un sistema di potere simbolico che chiamiamo “canone”.

Leggi anche: “ALPHONSE MUCHA. Un trionfo di bellezza e seduzione”: Roma svela i capolavori dell’artista

Eppure, proprio in questo sistema di regole e gerarchie, si nasconde la sua forza. Il canone è come una mappa della memoria che ci dice da dove veniamo, anche se non sempre ci piace il percorso. Leggere Omero o Flaubert, Dante o Virginia Woolf non serve solo a capire la storia della letteratura, ma a capire la storia delle idee che ci hanno costruiti. Le parole dei classici continuano a plasmare il nostro immaginario, anche quando non le leggiamo più direttamente. Sono i loro echi che rimbalzano nei film, nelle canzoni, nei meme, nei modi in cui pensiamo l’amore, il potere, la morte. Ma leggere un classico oggi — in un tempo di scroll, notifiche e distrazioni permanenti — è un gesto controcorrente.

È una forma di resistenza al ritmo accelerato della contemporaneità. Un romanzo ottocentesco chiede lentezza, chiede silenzio, chiede di stare dentro una frase più a lungo di un tweet. Per questo, forse, i classici ci appaiono faticosi, perché il loro linguaggio è l’opposto della sintesi, della rapidità, della gratificazione immediata. Leggere un classico, insomma, non è solo un atto culturale, ma un esercizio morale. È l’arte di sopportare la distanza. Quella distanza che separa il mondo di Anna Karenina dal nostro, o quella che ci costringe a cercare il significato di una parola in Omero invece di “sentirlo” subito. È proprio questo sforzo — questa frizione tra passato e presente — che ci forma come lettori e come individui.

In un’epoca in cui la lettura è sempre più mediata da algoritmi, dove le piattaforme ci suggeriscono libri “simili” a ciò che già ci piace, tornare ai classici significa sottrarsi alla logica della conferma. Non leggiamo Eneide o Moby Dick per ritrovarci, ma per perderci. Per uscire dal nostro orizzonte di comfort e riconoscere che la letteratura non è fatta solo per intrattenerci, ma per trasformarci.

E tuttavia, difendere i classici non significa sacralizzarli. Ogni generazione ha il diritto — anzi, il dovere — di rinegoziare il canone, di chiedersi chi resta fuori da quella storia. Dove sono le voci femminili, le letterature colonizzate, i testi orali, le tradizioni non europee? Leggere i classici oggi dovrebbe voler dire anche mettere in discussione la loro centralità, affiancando a Omero le poetesse del Sud globale, a Kafka gli scrittori della diaspora.

Perfino l’intelligenza artificiale, che ormai analizza e imita i testi del passato, ci obbliga a ridefinire il senso del classico. Se un algoritmo può “scrivere come” Shakespeare, cosa resta dell’esperienza umana della lettura? Forse proprio la nostra fatica, la lentezza con cui entriamo in un testo e ne usciamo cambiati. In fondo, i classici non sopravvivono perché li amiamo, ma perché continuano a interrogarci. Ci chiedono di essere letti non per la loro perfezione, ma per la loro imperfezione viva, per la loro capacità di parlarci anche quando non capiamo subito cosa vogliono dire.

Forse non c’è un piacere puro nei classici. Ma c’è una forma di libertà: quella che nasce dal confronto con qualcosa che resiste alla velocità, che ci educa a pensare in profondità, che ci ricorda che la cultura non è solo un consumo, ma una lunga conversazione tra vivi e morti. E continuare a leggerli, anche quando non ci piacciono, significa restare dentro quella conversazione.

László Krasznahorkai è il Premio Nobel per la Letteratura 2025: “Nel caos apocalittico riafferma il potere dell’arte”

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