Marco Bellocchio alla Festa del Cinema: da “I pugni in tasca” ai nuovi progetti
Un pubblico numeroso, composto in gran parte da giovani, ha accolto con entusiasmo Marco Bellocchio alla Festa del Cinema di Roma per la masterclass “Gli anni de I pugni in tasca”, un incontro che ha ripercorso i sessant’anni del film d’esordio del regista piacentino, realizzato nel 1965 e oggi considerato uno dei capolavori assoluti del cinema italiano.
A dialogare con Bellocchio, il critico cinematografico Paolo Mereghetti e il consulente della Festa del Cinema Enrico Magrelli, che hanno accompagnato il Bellocchio in un viaggio nella memoria tra scelte artistiche, influenze culturali e riflessioni sul presente del cinema.
Sessant’anni di un film rivoluzionario
Bellocchio ha ricordato gli inizi di una carriera segnata da decisioni “a volte stravaganti, giudicate pazzesche se non distruttive, ma poi rivalutate”. Nel suo percorso, ha spiegato, “ci sono compromessi accettabili e altri inaccettabili, ma io ho sempre saputo dove porre il limite”.
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Riflettendo sul suo esordio, il regista ha sottolineato come I pugni in tasca “si sia difeso dal tempo, forse per la sua dimensione così poco realistica e ‘non neorealistica’”. Girato con un budget ridottissimo nella casa di famiglia a Bobbio, con un cast di giovani attori allora sconosciuti — tra cui Lou Castel e Paola Pitagora —, il film raccontava la ribellione di un figlio epilettico che, in un gesto estremo e disturbante, decide di eliminare la madre e i fratelli.
Un’opera di rottura, scandalosa per l’epoca, che segnò la fine del neorealismo e aprì una nuova stagione del cinema italiano, più interiore, politica e psicologica. “Penso abbia colpito per il modo in cui esprimeva il furore, la rabbia, il bisogno di agire del protagonista – ha spiegato Bellocchio –. Quando butta la madre nel burrone, questo giovane tutt’altro che virtuoso agisce sbagliando totalmente e autodistruggendosi, compie azioni che allora erano sorprendenti”.
La Nouvelle Vague e l’epoca del ’68
Il regista ha spiegato che la sua generazione era influenzata dagli autori della Nouvelle Vague, ma il suo rapporto con quel cinema fu tutt’altro che idolatrico. “La Nouvelle Vague non mi esaltava”, ha detto. “Tra di loro amavo chi faceva un cinema più classico, e il mio preferito era Resnais”.
Fu proprio Hiroshima mon amour a colpirlo profondamente, “per l’intreccio tra storia d’amore e storia di guerra, per una citazione dell’attrice sul suo primo amore – un soldato tedesco – e per certe soluzioni registiche”, come “il modo in cui i personaggi entravano e uscivano dalle inquadrature: il campo e controcampo era superato”.
Durante la masterclass, Paolo Mereghetti ha osservato come in Italia il regista maggiormente associato alla Nouvelle Vague sia stato Bernardo Bertolucci, o in certi casi Carlo Lizzani con La vita agra, “per il suo essere spezzettato, narrativamente discontinuo”.
Bellocchio, invece, si è sempre mosso in un’altra direzione: le sue influenze principali, ha detto, “erano il romanzo, il surrealismo e il cinema realista, non Truffaut o Godard”.
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I relatori hanno ricordato come il sovvertimento delle regole narrative introdotto dal movimento francese si scontrò in Italia con una tradizione di grandi narratori, quella della commedia all’italiana di film come Il sorpasso, I mostri, Tutti a casa.
I progetti futuri e il cinema di oggi
Bellocchio, che ha appena concluso Rapito e continua a essere tra i registi italiani più attivi, ha parlato anche dei suoi progetti futuri, a partire dal film (o serie) su Sergio Marchionne, “un progetto complicato che ancora non so se farò”.
“Mi capita che mi vengano proposti – e io rispondo positivamente perché mi piace – progetti piuttosto complessi”, ha spiegato. “Ma vorrei riuscire a fare anche dei film piccolissimi, e penso che ci riuscirò”.
Un desiderio che nasce anche dal legame con Marx può aspettare, il documentario dedicato alla morte del fratello gemello, che il regista ha definito “tra i film che amo di più, combinato con lo strazio della mia vita”.
“Vorrei riuscire ancora a fare qualcosa in una direzione minimale – ha aggiunto –. L’esperienza bobbiese, che si pensava parallela a tutti gli altri film, per me è stata estremamente importante: mi potrà permettere di trovare il tempo e l’immaginazione per lavorare anche in quel versante”.
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Parlando di Marchionne, Bellocchio ha sottolineato il parallelismo con la sua stessa esperienza giovanile: “Anche lui, come me dopo il Centro Sperimentale, quando arrivò in Canada non sapeva una parola d’inglese. Ma si accanì finché non lo imparò, perché gli serviva per affrontare i grandi colossi americani. Nel mio caso, invece, l’inglese che ho imparato era più un inglese shakespeariano”, ha raccontato sorridendo.
Tra politica, realismo e nuove tecnologie
A proposito dei tagli al cinema nella legge di bilancio, Bellocchio ha commentato con ironia: “Non credo sia una persecuzione contro il cinema. Devono tagliare, e certamente il cinema non è che sia un terreno di sinistra o di destra. Insomma, non credo sia la loro tazza di tè”.
Infine, ha riflettuto su come sia cambiato l’accesso alla produzione cinematografica: “Oggi questa democrazia dei mezzi, il fatto che con le nuove tecnologie tutti possano fare film, era inimmaginabile quando ho iniziato. Adesso andiamo sempre più in là: con l’intelligenza artificiale ci ritroveremo a chiederci cosa è vero e cosa è falso”.



