“La lunga marcia” di Stephen King (Richard Bachman): l’inferno a passo d’uomo
“La lunga marcia“, scritto da Stephen King e pubblicato nel 1979 sotto lo pseudonimo di Richard Bachman, è un libro crudele e visionario, scritto quando era ancora studente all’Università del Maine, molto prima che il mondo conoscesse “Carrie” o “Shining“, giusto per citarne due a caso. È, a tutti gli effetti, il suo primo romanzo completo (anche se rimasto nel cassetto per anni) ma già contiene in sé la potenza, la compassione e la disperata lucidità che avrebbero definito la sua carriera.
King immagina un presente alternativo, una versione degli Stati Uniti che sembra aver perso la Seconda Guerra Mondiale o essere scivolata in un regime totalitario. Non ci sono spiegazioni, né premesse: il lettore viene catapultato in un mondo dove la libertà è un concetto sbiadito e lo spettacolo della sofferenza è diventato intrattenimento di massa.
Ogni anno, in questa nazione piegata e apatica, si tiene “La Lunga Marcia”, una competizione seguita da tutti, in diretta televisiva, come una gigantesca liturgia laica. Cento ragazzi sotto i diciotto anni, scelti tra migliaia di volontari, partono dal confine con il Canada per marciare verso sud, lungo le strade del Maine. Devono mantenere una velocità minima di sei chilometri all’ora. Se rallentano, ricevono un’ammonizione. Alla terza infrazione, vengono “congedati”. Una parola gentile per dire fucilati sul posto. Solo uno arriverà vivo al traguardo. E potrà ottenere qualunque cosa desideri per il resto della vita.
King non perde tempo a spiegare le regole del suo mondo. Non ci sono prologhi o capitoli introduttivi, si inizia già dentro la marcia, come se il lettore fosse uno dei partecipanti. È una scelta narrativa coraggiosa, che rende la lettura claustrofobica, ininterrotta, quasi fisica. Ci si trova a camminare insieme ai protagonisti, a sentire la fatica nei muscoli, la sete, la paura.
Il romanzo segue Ray Garraty, un ragazzo del Maine che parte senza comprendere fino in fondo ciò a cui va incontro. Attorno a lui, una galleria di personaggi che King scolpisce con pochi, incisivi tratti: McVries, l’amico leale e tormentato; Stebbins, l’enigmatico e solitario figlio segreto del Comandante che organizza la marcia; Barkovitch, il cinico provocatore; Olson, Pearson, e molti altri.
A ogni miglio, qualcuno cade. Una gamba cede, un corpo si piega, un pensiero di troppo rallenta il passo — e il suono secco dei fucili spezza il silenzio. La strada si fa lunga, interminabile, mentre il gruppo si assottiglia. Ciò che resta è l’essenza più nuda della vita: la sopravvivenza.
Rileggendolo oggi, all’indomani dell’annuncio del film a essa ispirato, “La lunga marcia” sembra anticipare di decenni la logica dei reality show e della spettacolarizzazione del dolore. King aveva intuito, già negli anni Sessanta, che l’uomo moderno sarebbe stato disposto a tutto pur di sentirsi visto. Il romanzo diventa così una critica feroce al bisogno di approvazione e alla perdita di empatia di una società che trasforma la morte in intrattenimento. È impossibile non pensare, leggendo queste pagine, a opere come Hunger Games o Battle Royale, che devono molto al modello kinghiano. Ma “La lunga marcia” è più essenziale, più spoglia, più vera. Non c’è un’arena scintillante, né effetti speciali, solo asfalto, sudore e paura.
In mezzo alla violenza e alla disperazione, King lascia spazio a qualcosa di profondamente umano: la nascita di legami in condizioni impossibili. Tra Garraty e McVries, in particolare, si sviluppa un rapporto che va oltre la semplice amicizia. È un legame ambivalente, fatto di affetto, rivalità e un amore non dichiarato, che apre riflessioni sul confine tra fratellanza e desiderio. C’è in questo rapporto una forma di purezza, ma anche un presagio di tragedia. I due si sostengono a vicenda, si confessano, si confrontano sulla morte e sul senso della vita. Ma la Marcia non ammette debolezze. E alla fine, l’unico modo per vincere è restare soli.
Tra le scene più intense del romanzo, una spicca per potenza simbolica, quella della morte di uno dei ragazzi, che cade a terra in una posa simile a quella del Cristo crocifisso. Per un attimo, King sembra evocare l’idea di un sacrificio redentore, un gesto estremo per ribellarsi alla crudeltà del sistema. Ma subito dopo, lo annulla. Il sacrificio non serve a nulla. La marcia continua. Nessuno impara niente. È questo il cuore oscuro del romanzo, la consapevolezza che la sofferenza non purifica, che la vita non offre ricompense, che ogni passo è solo un passo in più verso la fine. Eppure, King riesce a trasformare questo nichilismo in un’esperienza catartica, di straordinaria bellezza letteraria.
“La lunga marcia” termina come un sogno allucinato, sospeso tra realtà e delirio. Garraty, ormai solo, continua a camminare. È esausto, morente, ma davanti a sé intravede una figura, un uomo che lo chiama. E lui, ancora una volta, si mette in marcia. Un finale enigmatico, poetico e disperato, che ha alimentato per anni interpretazioni e discussioni. C’è chi vi legge la morte del protagonista, chi un’allucinazione, chi una nuova forma di resistenza. King stesso ha dichiarato che, scrivendolo, non sapeva davvero cosa significasse. “Forse,” disse, “volevo solo che continuasse a camminare, perché fermarsi voleva dire morire”.
King scrisse “La lunga marcia” a soli diciotto anni. È un’opera giovanile, ma già pienamente matura nella sua concezione. Niente mostri, niente case stregate, niente soprannaturale, solo l’uomo contro se stesso. È un romanzo psicologico, filosofico, politico. E soprattutto, profondamente umano. Quando fu pubblicato nella raccolta The Bachman Books, dopo che King confessò di essere l’autore dietro lo pseudonimo, molti lettori scoprirono un volto diverso del Re dell’horror, quello di un narratore capace di raccontare l’orrore più grande di tutti, quello reale.
“La lunga marcia” è un libro che non invecchia. Ogni volta che lo si rilegge, sembra parlare al nostro presente. In un mondo in cui la competizione è idolatrata e la sofferenza diventa spettacolo, King ci ricorda che la linea tra intrattenimento e barbarie è più sottile di quanto crediamo.
La sua prosa, semplice ma tagliente, il ritmo serrato, l’introspezione psicologica dei personaggi, rendono questo romanzo una lettura imprescindibile. È, senza dubbio, uno dei capolavori del King più giovane e più puro: un’opera che cammina, come il suo protagonista, senza mai fermarsi.
Secondo alcuni “La lunga marcia” è una delle vette più alte della narrativa distopica del Novecento. Difficile dirlo senza scatenare dibattiti e polemiche anche perché, di “colleghi”, questo libro ne ha fin troppi. Ma è un romanzo crudele, malinconico, spietatamente lucido, è anche un grido di umanità, una riflessione sulla resistenza, sulla paura e sulla capacità dell’uomo di andare avanti nonostante tutto.
Perché, come King ci insegna, a volte l’unica cosa che possiamo fare è continuare a camminare. Sempre.



