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“Il cinema non può essere arrestato”: la masterclass di Jafar Panahi alla Festa del Cinema

Sara Paneccasio Posted On 23 Ottobre 2025
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Giunta quasi alla fine della ventesima edizione, la Festa del Cinema di Roma ha ospitato una masterclass di Jafar Panahi. Regista, sceneggiatore e produttore iraniano, è noto per il suo cinema critico nei confronti della società e del regime iraniano. Nato nel 1960, è considerato uno dei principali esponenti del nuovo cinema iraniano. Nonostante sia stato arrestato e sottoposto al divieto di girare film e viaggiare dal 2010, Panahi ha continuato a realizzare opere in modo clandestino, diventando un simbolo di resistenza artistica e libertà di espressione.

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Oggi non è più soggetto alle restrizioni, ma racconta come sia ancora difficile svolgere la professione in Iran, dove vige un sistema di censura per cui ogni soggetto deve essere approvato dal Ministero della Cultura e della Guida Islamica, per cui non si ritiene ancora libero. “Negli anni di interdizione ho girato quei cinque film mentre ero in uno stato di shock e continuamente pensavo: come posso fare per realizzare i miei film? Mi mettevo sia dietro sia davanti alla telecamera: facevo anche l’attore in un certo senso. Oggi sono tornato solo dietro la telecamera, al mio vero posto e sto finalmente facendo il mio lavoro da regista.“

Un’apparente libertà

Al rientro in Iran dopo aver vinto la Palma d’oro a Cannes con È stato solo un incidente, Panahi ha ricevuto congratulazioni da parte di amici e colleghi, ma progressivamente le istituzioni hanno cominciato a sostenere la poca importanza del suo riconoscimento. Una chiara testimonianza – seocndo i racconti del regista – di come la tensione che c’è da decenni, fra i creatori (non solo i registi) e lo Stato, non sia completamente assopita… per cui è inevitabile vedere i film di Panahi e di altri registi iraniani come un grido di protesta.

I primi anni

Per la masterclass alla Festa del Cinema di Roma, Jafar Panahi ripercorre gli inizi della sua carriera, in cui l’incontro con Kiarostami – regista iraniano molto amato anche in Italia – è stato fondamentale, così come la sua determinazione.

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Attraverso la visione delle clip dei suoi film, rivela il motivo dietro la scelta dei bambini come protagonisti delle sue prime storie (Il palloncino bianco e Lo specchio).

 “A quei tempi la censura era molto forte ed era difficile girare film per adulti senza avere problemi con la censura. Era più semplice per noi registi far accettare film che trattano tematiche per i bambini, ma in realtà parlavamo di cose da adulti. Dal terzo film ho deciso di parlare direttamente degli adulti.”

Il cinema sociale di Panahi

In che modo Jafar Panahi parla al suo pubblico?

“Io mi definisco un regista di cinema sociale, cioè quel genere che tratta le tematiche della società, del contesto in cui vive il regista, delle relazioni umane più semplici. Insomma di tutto quelle che lo circonda, nella sua città e nel contesto in cui vive. Quando scegli di fare questo tipo di cinema, sei costretto a essere reale e devi essere credibile.”

Per questo preferisce attori non professionisti e location naturali. Racconta Panahi:

“Per esempio, quando stavo girando Il palloncino bianco avevo bisogno di un venditore di pesce e sono andato fino al nord dell’Iran per trovarne uno. Poi avevo bisogno di un sarto e ne ho trovato uno che da 40 anni usava ago e filo, così nel momento in cui prendeva in mano l’ago stava facendo la sua professione e non si distraeva pensando alla recitazione.

Sono del parere che tutti possono recitare, ma ognuno deve essere scelto per il ruolo che può portare avanti e ovviamente deve essere diretto in maniera giusta per arrivare a un livello accettabile di recitazione. Se in alcuni film un attore non recita in modo corretto, non è colpa sua. È colpa del regista: lo ha scelto male oppure non l’ha diretto bene. Per scegliere bene è fondamentale la fisicità del personaggio. Se la fisicità è giusta, appena lo spettatore vede il personaggio sullo schermo, ha già un’idea di chi è.“

E allora quali istruzioni dare ai non-attori?

“È semplice: gli dico di non recitare. Devo dire che io non ho un buon rapporto con il teatro: trovo che tutto un po’ esagerato. Un mio amico è un regista teatrale, mi ha invitato ad andare a vedere il suo lavoro e io sono stato costretto ad andarci. Sul lato sinistro del palcoscenico c’era una che leggeva un testo e sul lato destro c’erano degli attori che recitavano che non riuscivo a guardare. Alla fine dello spettacolo sono andato dalla signora che stava leggendo e le ho chiesto di recitare nel mio film. Lei sorpresa ha detto che non aveva esperienza cinematografica e nemmeno nel teatro perché si stava appena affacciando a questo mondo, in questo mondo. ‘Ma come ha fatto a scegliermi? Neanche mi ha visto recitare.’ E io ho risposto ‘è proprio perché non reciti che ti ho scelto‘”

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E allora come si sviluppa l’idea iniziale? Qual è il rapporto fra i copioni che lei pensa e quello che accade sul set? La chiave sta nella capacità di cogliere il talento e sapersi adattare.

Panahi confessa di non fare mai prove con i suoi attori non professionisti. Quando arriva sul set spiega in breve il soggetto che aveva in mente, accenna i dialoghi ma poi chiede “adesso dimentica tutto quello che ti ho appena detto perché tu non devi ripetere questi dialoghi, ma sapere che devi arrivare da questo punto a quest’altro punto e il contenuto dei dialoghi deve rimanere tale. Però tu puoi usare tutte le parole che vuoi”. Spesso però gli attori non professionisti non usano solo parole diverse, ma anche movimenti diversi. “E perciò ci vuole una certa capacità per adattare la tua idea a quello che succede”.

Soluzioni alternative per fare cinema

Una svolta nella carriera di Panahi arriva con Taxi Teheran: nei quindici lunghi anni in cui gli è proibito realizzare film, il regista segue la sua vocazione, riuscendo a girare nonostante tutto con un’idea originale. Quello di Pahani è stato definito cinema clandestino e cinema di resistenza. Sicuramente si tratta di un cinema caratterizzato da una spiccata umanità, raccontando inevitabilmente frammenti di vita iraniana.

Ma come nasce Taxi Teheran?

“Non potevo più realizzare film e mi sono detto: se non posso fare il mio lavoro da regista, cosa posso fare? Io sono un tipo imbranato e non so fare altro che il cinema. Se rimango qualche altro giorno a casa, mia moglie chiederà il divorzio. Cosa posso fare? E mi sono messo a guidare un taxi. Ho portato la mia telecamera, l’ho nascosta e ho raccontato la storia di chi viaggiava con me.

Voi potete chiamarlo Cinema della resistenza, ma in realtà era solo paura della noia.

A chi dice che non devi più fare cinema, non devi più scrivere, non devi fare più interviste, Jafar Panahi risponde quasi con ironia, con una semplicità disarmante, cercando soluzioni alternative.

“Mi dite di non realizzare film, allora io chiamo un mio amico a casa mia, giriamo un film e lo chiamiamo ‘Questo non è un film’. Mi avete vietato viaggiare e allora io girerò un film all’estero senza viaggiare. Così ho girato Gli orsi non esistono: la storia di un regista che non può viaggiare, ma si trasferisce in un villaggio vicino al confine e attraverso WhatsApp dirige un film fuori dal confine. Perciò ho lavorato da casa e fuori casa fino a fuori i confini. Tutto ciò per dire che non si può arrestare il cinema, non si può tenere in gabbia il cinema.“

Il prossimo film

Durante la conferenza stampa alla Festa del Cinema di Roma, Jafar Panahi ha confessato di voler realizzare un nuovo film sulla guerra. Racconta: “Tra il 2006 e il 2011 volevo realizzare una sceneggiatura, ma non sono riuscito ad avere i permessi. Era un film socio-economico ma non potevo realizzarlo in maniera underground. Avevo anche contattato una banca che aveva accettato di finanziare il film, ma le istituzioni erano molto sensibili nei miei confronti, anche perché il tema di guerra è un tema che ha una certa sacralità per il governo iraniano. Volevo parlare della guerra con l’Iraq negli anni ‘80, ma oggi penso che dovrei adattare quell’idea alla guerra che c’è dovunque nel mondo. Userei comunque uno sguardo umano e sociale sulla questione della guerra. Parlerei di un tema di guerra, non farei un film di guerra.”

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Avviandosi alla conclusione della sua masterclass, Jafar Panahi ci tiene a sottolineare -di nuovo – che non desidera definire il proprio modo di far cinema come “politico”, ma semplicemente come “sociale”.

“A mio avviso il cinema politico è un cinema di partito, in cui le persone si dividono in buoni e cattivi. Nel cinema sociale non esistono buoni assoluti e cattivi assoluti. I personaggi si esprimono tutti in questo tipo di film. Per esempio, in questo mio ultimo film, ho dato possibilità al personaggio del torturatore/interrogatore di dire la sua perché l’ho reso partecipe come tutti gli altri.”

Il vero significato di È stato solo un incidente

Panahi fa una precisazione circa l’interpretazione del suo ultimo film, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes che rappresenterà la Francia nella corsa all’Oscar.

“Senza fare spoiler,” afferma il regista “molti giornalisti che hanno visto il film mi hanno chiesto se questo film tratti il tema della vendetta e del perdono. E io ho detto a tutti che assolutamente non è così. Certo, nel film è funzionale per portare avanti la narrazione. L’essenza del film arriva alla fine: porsi la domanda ‘cosa succederà in futuro?‘ Il circolo vizioso della violenza che genera violenza continuerà in futuro o a un certo punto riusciremo a spezzarlo? Voglio che il mio spettatore si ponga questa domanda e sia preparato per il futuro.”

(Fonte foto: Festa del Cinema di Roma)

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