“Io e Annie”: l’amore secondo Woody Allen, ovvero come sopravvivere alla memoria di ciò che non abbiamo capito
Quando “Io e Annie” (titolo originale: “Annie Hall”) uscì nel 1977, il cinema sentimentale o d’amore o romantico – chiamatelo come preferite – non fu più lo stesso. Woody Allen, regista, sceneggiatore e protagonista, firmava quella che sarebbe diventata la sua opera più iconica e universalmente celebrata assieme, probabilmente, solo a “Manhattan”. Accanto a lui, una Diane Keaton ispirata e vulnerabile, nei panni di una donna che non è solo musa, ma anche simbolo irraggiungibile, oggetto d’amore e soggetto d’addio. Con questo film Allen si aggiudicò quattro premi Oscar: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior attrice protagonista. Un’opera che non è semplicemente una commedia romantica, quanto invece una profonda riflessione ironica, malinconica e geniale sull’amore, la memoria e l’identità. È un’analisi sentimentale che si finge cabaret ma che, in realtà, ci tiene sotto esame.
Alvy Singer, il protagonista (cioè, Woody Allen), rompe la quarta parete fin dai primi secondi: “Annie e io ci siamo lasciati. Analizzo i cocci della mia vita e cerco di capire dov’è partita la crepa“. In questo incipit, fra Groucho Marx e Freud, si condensa tutto il cuore del film: un uomo che tenta di razionalizzare ciò che per natura sfugge alla logica, cioè l’amore. Allen mette in scena un racconto che scorre a ritroso, ma non secondo una cronologia lineare, e questo perché “Annie Hall” è un mosaico frammentario in cui i ricordi diventano episodi, i sentimenti si trasformano in dialoghi sovrapposti a pensieri, e le emozioni si manifestano sotto forma di sketch, sogni, incursioni animate e persino split screen. E la potenza della sceneggiatura di Allen mette in risalto ognuno di questi singoli elementi. A rendere ancora più netta la narrazione è la terza dimensione narrativa del film, quella in cui Alvy si ferma, guarda in camera e ci parla. Non più solo voce fuoricampo ma corpo parlante e pensante, cronista di una disfatta affettiva che, per paradosso, si fa commedia.
Leggi anche: Manhattan, nevrosi e amori di Woody Allen sullo sfondo di una New York onirica
“Io e Annie” è soprattutto una storia d’amore che nasce, vive e muore ma continua a esistere in una forma trasfigurata. È un amore fatto di incontri scomposti, battute sovrapposte, conversazioni fuori sincrono (celebre la scena sul terrazzo in cui i sottotitoli mostrano i pensieri divergenti di Alvy e Annie, mentre parlano d’altro). Il film non cerca armonie, ma coglie la verità nei disaccordi. Le stesse che ci pungolano e fanno male quando siamo più fragili e vulnerabili. Il punto di svolta arriva con una parola che è una melodia stonata: «Ladidà», mormora Annie con goffaggine e dolcezza. Un suono che non significa nulla e tutto allo stesso tempo. Come l’amore: privo di spiegazioni, ma pieno di effetti.
La coppia, tra sessioni di psicoanalisi e partite a tennis, concerti rock e dibattiti filosofici, va incontro al logoramento. Lui le consiglia libri, la invita a cantare, la accompagna in un percorso di crescita… ma senza accorgersi che, così facendo, la spinge via da sé. Annie non è una creazione di Alvy: è una donna che si emancipa. Quando sceglie Los Angeles, Alvy capisce che ha perso qualcosa che forse non ha mai davvero posseduto. In fondo, come dirà lui stesso: «Ci si innamora perché si ha bisogno di un’illusione. E poi ci si lascia quando l’illusione svanisce».
Il film è anche una lettera d’amore a New York, alla sua frenesia nevrotica, ai caffè intellettuali, ai cinema d’essai e alle librerie affollate di conversazioni impossibili. Alvy, incarnazione dello yiddish self-consciousness, non potrebbe vivere altrove. La scena in cui si trova a Los Angeles, disorientato, circondato da analisti solari e sorrisi finti, è un piccolo trattato cinematografico sulla dissonanza culturale. La città è specchio e alter ego del protagonista perché, come lui, è caotica, intellettuale, affascinante, fragile. Scegliere New York, in fondo, è scegliere un modo di vivere — e di amare — fatto di parole, errori, e tentativi di comprendere l’incomprensibile.
Il finale del film è una delle scene più struggenti della storia del cinema romantico. Alvy ha scritto una commedia basata sulla sua storia con Annie, ma nella sua versione immaginaria i due restano insieme. Nessuna parola: solo lo sguardo che ci racconta il fallimento, la nostalgia, l’irrinunciabile bisogno di riscrivere la realtà per sopravvivere alla sua verità. Il film termina con una battuta diventata proverbiale: «Abbiamo bisogno delle uova», dice Alvy, riferendosi a una vecchia barzelletta. Perché, nonostante tutto, crediamo ancora nell’amore. Anche quando ci fa male. Anche quando ci lascia. Anche quando finisce.
Leggi anche: Amicizia, amore e nevrosi: Diane Keaton e Woody Allen
Woody Allen, con quest’opera ha reinventato il linguaggio della commedia romantica. Ha unito la leggerezza al dolore, la parola all’immagine, il riso alla malinconia. Ha costruito un’opera epicamente intima, dove il cinema diventa terapia, confessione, labirinto e specchio. Diane Keaton, con la sua performance anticonvenzionale e disarmante, ha fatto entrare Annie Hall nell’immaginario collettivo. Un personaggio indelebile, che non ha bisogno di essere capita, ma solo ricordata. E amato, come si ama qualcosa che ci sfugge sempre un attimo prima di poterlo afferrare. “Io e Annie”, per molti, è il miglior film di Woody Allen. È uno dei film più belli mai scritti sul fatto che non riusciremo mai a capire l’amore, ma ci ostineremo a provarci, film dopo film, vita dopo vita.



