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Intervista. Mariangela D’Abbraccio fa rivivere la leggenda di Billie Holiday: “anime dolce e fragile”

Domenico Paris Posted On 3 Novembre 2025
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Da stasera fino al 9 novembre, Mariangela D’Abbraccio è in cartellone al teatro Greco di Roma (via Ruggero Leoncavallo 10) con “Lady Day“, uno struggente e intenso spettacolo che ripercorre la vicenda umana e artistica della grande Billie Holiday.

Scritto per lei da Maurizio De Giovanni e diretto da Francesco Tavassi, con la partecipazione, rispettivamente al contrabasso e al pianoforte, di Dario Piccioni e Mattia Niniano, questo originale monologo, in un’atmosfera soffusa e malinconica di un locale notturno ormai svuotato, guiderà lo spettatore lungo le tappe più significative della tumultuosa vita di quella che è considerata una delle ugole più significative nell’ambito del jazz e del blues, nonché, e a ragione, una delle artiste più coraggiose e perseguitate nella storia della musica tout court.

Alla vigilia del debutto, non ci siamo lasciati sfuggire l’occasione di parlarne un po’ con la brava attrice napoletana, che dopo aver debuttato giovanissima sotto l’egida del grande Eduardo De Filippo, è divenuta nel corso degli anni una delle interpreti più apprezzate del teatro italiano, grazie anche al lungo sodalizio artistico con Giorgio Albertazzi e alla collaborazione con tanti rinomati registi.

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La prima domanda non può che essere questa: salire sul palco e interpretare le canzoni di Lady Day mette i brividi? Ha seguito un training particolare per questo spettacolo o si è affidata solo al cuore?

Il fatto che le canzoni siano espressamente previste dalla drammaturgia di Maurizio De Giovanni fa in modo che, più che cantate, siano evocate, dunque la mia preoccupazione principale è senza dubbio quella di rispettare le esigenze sceniche dello spettacolo piuttosto che quella di cantare. In ogni caso, le canto “di cuore”, secondo le mie possibilità, preoccupandomi sempre di avere Billie Holiday dentro.

Nello straordinario repertorio della cantante statunitense, qual è la canzone che preferisce e qual è quella che le pare di “abitare” meglio?

Comincerei col dire che in questo Lady Day, così come nella sua carriera d’altronde, ha una centralità evidente “Strange Fruit”. Dalla sua data di uscita in poi (scritta da Abel Meerpol nel 1937 e portata al successo dalla Holiday nel 1939), ha subito rappresentato un vero e proprio manifesto, con la sua commovente denuncia dei linciaggi subiti dagli afroamericani che, all’epoca, erano ancora piuttosto frequenti negli Stati Uniti.

Averla voluta sempre eseguire senza mai piegarsi ai ricatti di chi glielo avrebbe voluto impedire e pagandone le conseguenze con quella che a tutti gli effetti può essere considerata una persecuzione, dice molto sulla fierezza di questa donna. Personalmente amo molto “I am fool to want you”e “You’ve changed”, soprattutto quando mi capita di ascoltarne le esecuzioni che la Holiday ne fece a fine carriera, con una voce sempre più bassa e intensa. Si sente che erano due canzoni che la “muovevano dentro”, che testimoniavano il suo modo di amare.

Per la costruzione del suo personaggio, al di là del testo di De Giovanni, ha attinto ad altre fonti scritte o video? Ci può dire in che modo ha lavorato?

Pur avendo letto alcuni libri sull’argomento (tra cui, naturalmente, il famoso e controverso La Signora canta il blues, scritto con William Duffy), devo dire che per questo spettacolo ho seguito alla lettera le indicazioni di De Giovanni. Il suo non è un monologo tradizionale, sembra più una ballad con i suoi versi brevi, molto ritmici. Ha un forte senso musicale già ab origine. In ogni caso, sono sempre stata dell’idea che, per quanto uno si possa o si voglia documentare, quando poi sale su un palcoscenico debba innanzitutto essere capace di fare piazza pulita dentro di sé per offrire una buona prova attoriale.

Nelle incredibili montagne russe che hanno caratterizzato la vita della Holiday, cosa l’ha colpita di più? E quale pensa sia stato il lascito più importante alle generazioni di donne (non solo le cantanti, ovviamente) che sono venute dopo di lei?

Inevitabilmente la sua infanzia. È triste da dire, ma tutti i suoi guai sono partiti da lì. L’abbandono da parte del padre, il tentativo di violenza subito, la reclusione (perché di quello si trattò) nella Casa del Buon Pastore: è solo considerando questi fatti che si riesce a capire la successiva inclinazione agli abusi di alcol e droga successivi o il suo modo disperato modo di amare.

La sua è stata quella che si potrebbe definire un’esistenza segnata e, per quanto il suo magnifico, inarrivabile talento le abbia permesso di riscattarsi (o, quantomeno, di aver avuto l’illusione di un riscatto), il dolore che si portava dietro deve essere stato qualcosa di insopportabile. Billie ha insegnato a tutte le donne dopo di lei a non piegarsi ed è stata portatrice di un messaggio antirazzista importantissimo. Strange fruit non è solo una canzone, ma un vero e proprio atto politico, la cui importanza non è mai venuta meno da ottantasei anni a questa parte.

Quando martedì sarà sceso per la prima volta il sipario al Teatro Greco, lei sarà contenta che gli spettatori avranno portato con loro…

La vera anima di questa donna meravigliosa raccontata senza censure e senza fraintendimenti, come invece spesso è stato fatto, compreso nella già citata autobiografia dove la sua vera, sanguigna personalità non emerge sempre in modo chiaro.

Lei viene da una palestra teatrale eccezionale che le ha permesso di lavorare con mostri sacri dello spettacolo italiano. Guardandosi indietro, come pensa sia evoluto il senso del suo mestiere? Con quali sfide diverse si deve cimentare il teatro oggi rispetto a ieri?

Io ho avuto la fortuna di iniziare in un momento storico favoloso, che favoriva il teatro e la cultura in generale e di questo sono molto felice. In ogni caso, a me sembra che anche oggi il teatro goda di buona salute, noto che c’è ancora voglia di andarci da parte della gente e questo è ciò che conta più di tutto. L’unico grave problema che secondo me lo interessa ai nostri giorni è la diffusa tendenza da parte di tanti registi a non riporre più come prima fiducia nei testi.

I capolavori sono capolavori, si possono “toccare” ma non cambiare completamente! Quando c’è eccessiva manipolazione, quando si arriva a veri e propri stravolgimenti, è lo spettatore a perderci più di tutti, perché viene meno il genio di chi un testo lo ha scritto e si rischia di non vedere più quello che era stato immaginato quando è stato concepito. Ecco, oggi riscontro spesso questa tendenza e la ritengo assolutamente grave, assolutamente nociva.

In chiusura: al di là del Teatro Greco, immagina ci sia un posto ideale più di altri dove mettere in scena questo spettacolo? Quanto è importante per il suo lavoro uno spazio piuttosto che un altro?

Moltissimo, lo spazio a teatro è fondamentale, anche quando non è prettamente “teatrale”. Ispira tutta la recitazione e fa sì che uno spettacolo, da una replica all’altra, possa addirittura cambiare completamente. Non bisogna dimenticare che la distanza/vicinanza con il pubblico provoca sempre delle reazioni dentro noi attori e, quindi, automaticamente, nuove soluzioni sceniche di volta in volta che siamo su un palcoscenico.

Per quanto riguarda questo Lady Day, che è una produzione de La Fabrica dell’Attore di Manuela Kustermann, ha avuto una sua prima rappresentazione al Teatro Vascello lo scorso maggio nell’ambito di una rassegna dedicata a sei donne straordinarie raccontate da sei autori d’eccezione. Già in quella sede, la struttura gradinata e verticalizzata, simile a quella del Teatro Greco, mi è sembrata la più adeguata a ingenerare un certo tipo di “clima” che considero necessario per poter interpretare al meglio questo particolare monologo.

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