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Il martirio silenzioso del soldato Palla di Lardo: la metamorfosi di Vincent D’Onofrio in Full Metal Jacket

Federico Falcone Posted On 30 Giugno 2025
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Quando nel 1987 uscì “Full Metal Jacket“, il cinema di guerra non fu più lo stesso. Stanley Kubrick, genio dell’inquadratura millimetrica e fautore del rigore ossessivo, firmava il suo contributo al racconto del Vietnam ispirandosi al romanzo “The Short-Timers” di Gustav Hasford. Il film si apre tra le grida di un sergente istruttore e il silenzio sconvolto di reclute appena rasate, per poi dissolversi nella follia della guerra vera, quella sui campi e nella giungla, nei palazzi e nelle strade. Girato quasi interamente in Inghilterra (le paludi e le rovine del Vietnam vennero ricreate tra le zone industriali di Londra e le campagne inglesi) “Full Metal Jacket” è un’opera glaciale, cruda, spietata. E al centro del primo, indimenticabile segmento del film c’è lui, Leonard Lawrence, soprannominato Palla di Lardo, interpretato da un Vincent D’Onofrio che a quel tempo non era ancora nessuno ma che, grazie a questa performance, lo divenne.

Quando Kubrick inizia i casting, D’Onofrio fa il buttafuori. Lavora all’Hard Rock Cafe, ha già fatto qualche piccola parte, a dire il vero, ma il sogno del cinema è ancora lontano. A tendergli la mano è Matthew Modine, il futuro soldato Joker del film, che gli parla del progetto in corso e della possibilità di ottenere un provino. Nessuna promessa, solo un’opportunità. Quel provino, D’Onofrio, lo ottiene e lo supera. Ma non senza un prezzo. Kubrick, notoriamente perfezionista al punto da esasperare anche i più pazienti, pretende che l’attore aumenti drasticamente di peso per incarnare la fisicità impacciata e grottesca di Pyle. D’Onofrio passa da 90 a 125 chili in sette mesi, un record nella storia del cinema, perfino superiore a quanto fece De Niro per “Toro scatenato”. “Mi disse che in quello stato sembravo uno capace di fare a botte”, racconta D’Onofrio. “Poi mi chiese di ingrassare ancora. Nessuno mi guardava più per strada. La gente pensava che fossi stupido. Ma è stato quel ruolo a cambiarmi la vita”.

La trasformazione fisica, però, non fu l’unico sacrificio cui l’attore dovette sottoporsi. Durante le riprese dell’addestramento militare, comprensibilmente crude, estenuanti, studiate per spingere lo spettatore nella psicosi e nello psicodramma del protagonista, l’attore si fa male a un ginocchio. Serve un intervento chirurgico. Nonostante ciò, D’Onofrio continua a girare. Nella celebre scena delle saponette (quella dove Pyle viene punito dai compagni) si ferisce davvero. Non c’erano saponette vere, ma Kubrick fece ripetere la sequenza decine di volte. Lividi compresi. Il regista di “2001: Odissea nello spazio” e “Arancia Meccanica” non si accontentava mai. Sul set di Full Metal Jacket, il tempo si dilatava. Tanto che, come rivelò D’Onofrio stesso, nel corso delle riprese Matthew Modine si sposò ed ebbe un figlio, e quel figlio compì un anno prima della fine delle riprese.

L’interpretazione di D’Onofrio è tra le più disturbanti e potenti del cinema militare. Pyle non è un semplice comprimario, è l’emblema dell’alienazione, della disumanizzazione del soldato. La sua evoluzione — o, meglio, la sua implosione — si consuma con una precisione chirurgica. Passa da ingenuo, sorridente e impacciato a minaccia incombente, specchio del fallimento di un intero sistema. È un personaggio che fa male, perché lo vediamo crollare lentamente, scena dopo scena, sotto lo sguardo implacabile del sergente Hartman (R. Lee Ermey). Per D’Onofrio, quel ruolo è stato un passaggio obbligato.

“Stanley ha lanciato la mia carriera, non c’è dubbio. Ho girato oltre 50 film grazie a lui. Non c’è nessun altro motivo per cui sto lavorando ancora”, ha ammesso con franchezza. E ha ragione. Perché da quel momento in poi, il suo volto capace di passare dalla tenerezza infantile alla minaccia psicotica è diventato una firma riconoscibile. Non ha mai smesso di lavorare, eppure il fantasma di Leonard “Pyle” Lawrence lo accompagna ancora. Kubrick, da parte sua, aveva visto lungo. Aveva intuito in D’Onofrio una fisicità tragica, una capacità mimetica rara, un talento crudo da scolpire a colpi di riprese infinite. E, come sempre, aveva avuto ragione. Oggi, a distanza di decenni, Full Metal Jacket è ancora una pietra miliare. E il contributo di D’Onofrio resta incancellabile grazie a un’interpretazione che è al tempo stesso performance attoriale e atto di martirio. Un corpo e una mente portati al limite, al servizio di un’opera che non concede nulla alla retorica. Solo alla verità. Quella nuda e feroce della guerra.

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