Gli 85 anni di Al Pacino: genio, metodo e furia

Nel panorama del cinema contemporaneo, poche figure hanno saputo incarnare con tanta coerenza e furiosa autenticità le contraddizioni dell’animo umano quanto Al Pacino.
Nato il 25 aprile 1940, Alfredo James Pacino ha attraversato il cinema americano – e non solo – come un attore tragico del nostro tempo: portando sullo schermo personaggi memorabili non per la loro grandezza, ma per la loro lacerante imperfezione.
I ruoli iconici: anatomia di un mito
La filmografia di Pacino è una costellazione di personaggi divenuti icone. Ciò che impressiona non è la quantità dei successi, bensì l’intensità con cui ha saputo farli vivere.
Michael Corleone ne “Il Padrino” di Francis Ford Coppola è forse l’esempio più emblematico: l’eroe tragico per eccellenza, che passa dall’innocenza tormentata alla fredda spietatezza. Al Pacino modella il personaggio con un minimalismo espressivo che ricorda il teatro nô: lo sguardo basso, la voce contenuta, l’assenza di compiacimento. La sua interpretazione ridefinisce il concetto stesso di “silenzio narrativo“, rendendo eloquente ogni pausa, ogni sguardo laterale.
In “Scarface” di Brian De Palma, il baricentro recitativo si sposta sull’eccesso, sul delirio messianico del potere. Il suo Tony Montana è un mostro shakespeariano in salsa pop, ma costruito con una dedizione mimetica che lo rende disturbante e magnetico: la voce spezzata da un accento artificiale, la postura animalesca, l’energia distruttiva che brucia ogni legame umano.
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In “Serpico“, diretto da Sidney Lumet, si fa invece interprete di un’etica impossibile, di un’idealismo che si confronta con il putridume istituzionale. Pacino opta per una recitazione febbrile, inquieta, tutta interna, che si consuma nel corpo stesso dell’attore, restituendo un realismo morale che ha fatto scuola.
Con “Heat” di Michael Mann, ci troviamo di fronte a un’opera sulla solitudine dell’uomo moderno, sullo specchio che riflette due destini paralleli. Vincent Hanna è l’apice di un certo modo di recitare l’ossessione: verbosa, incalzante, quasi jazzistica nel ritmo.
In “Angels in America“, straordinaria miniserie Hbo tratta dal testo di Tony Kushner, il suo Roy Cohn è un capolavoro di ambiguità e orrore: un personaggio tanto ripugnante quanto tragicamente umano, che Pacino interpreta senza mai indulgere nel caricaturale. È una lezione di misura dentro l’eccesso, di empatia nella mostruosità.
Gemme nascoste: il Pacino sperimentale
Non meno significativi sono i progetti minori, quelli apparentemente eccentrici, in cui Pacino esplora con più libertà la forma e il senso della recitazione stessa. “The Local Stigmatic“, girato nel 1990, è una riflessione disturbante sull’alienazione e la violenza insensata. Raramente distribuito, è un esercizio attoriale purissimo.
“Looking for Richard” (1996), docu-film da lui diretto, è al tempo stesso un atto d’amore per Shakespeare e una riflessione metateatrale sul ruolo dell’attore come interprete del potere e del linguaggio. Un’opera saggistica travestita da documentario.
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“You Don’t Know Jack” (2010) offre invece un’ennesima variazione sulla figura del solitario morale: il dottor Kevorkian, fautore del suicidio assistito, diventa l’occasione per una meditazione sulla morte, sulla pietà e sull’etica della scelta. Pacino, mai così fragile, scava con dolcezza nelle rughe di un corpo al margine.
Curiosità: anatomia di un attore totale
1. I ruoli rifiutati
Tra i ruoli “sfiorati” da Pacino, si contano autentici totem del cinema moderno: Han Solo in “Star Wars” (ruolo rifiutato perché non capiva la sceneggiatura, da lui definita come “greco per me“) e Travis Bickle in “Taxi Driver“. Ma anche i ruoli da protagonista in “Pretty Woman” e “Die Hard“.
Ciascuno di questi rifiuti è emblematico della sua integrità artistica. Non era questione di successo, ma di necessità espressiva. Ogni ruolo, per Pacino, doveva essere “sentito” prima che accettato, percepito come estensione possibile della propria interiorità.
2. La Pacino voice: rabbia, tenerezza, potere
Se l’occhio è lo specchio dell’anima, per Pacino la voce è il suo strumento più pericoloso. Una voce scorticata, modulata con la sapienza di un direttore d’orchestra, che sa oscillare tra l’urlo gutturale e il sussurro intimo. In lui la parola è suono, ritmo, corpo. Il modo in cui pronuncia “Attica!” in “Dog Day Afternoon” o le pause calibrate in “The Irishman” sono esempi di una musicalità recitativa irripetibile, dove ogni inflessione contiene un mondo emotivo.
3. Il metodo Stanislavskij e l’ossessione per la verità
Pacino è figlio dell’Actors Studio, dove si forma sotto l’ala di Lee Strasberg. Il metodo Stanislavskij, filtrato attraverso l’intransigenza americana del “Method”, diventa per lui un processo interiore. L’attore non interpreta, diventa. Ma in Pacino il metodo non è mai manierismo: è tensione etica verso la verità, un continuo smascheramento dell’io per arrivare al nucleo incandescente del personaggio. È celebre la sua dedizione maniacale: mesi di prove, studio ossessivo della psicologia del ruolo, immersione totale nella parte fino al limite della trasfigurazione personale.
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4. Il teatro come casa: tra sacro e sperimentale
Il teatro non è mai stato per lui un ritorno nostalgico, ma una continua ricerca: basti pensare che ha fondato una propria compagnia di off-Broadway.
Shakespeare, O’Neill, Mamet: ogni autore è un labirinto in cui l’attore si perde e si reinventa. Sul palco, Pacino libera il gesto, rompe la quarta parete, si confronta con la durata vera del tempo scenico.
Le sue messe in scena sono laboratori vivi: “The Merchant of Venice“, “Salome“, “Orphans“. Il teatro, per lui, è “il luogo della verità non mediata”, una forma di spiritualità performativa.
5. Ritmo e silenzio: il copione come spartito musicale
Uno degli elementi più sottovalutati – e più straordinari – della recitazione paciniana è la gestione del ritmo interno e del silenzio.
Leggendo il testo del copione come una partitura musicale, ogni frase è cesellata come un verso poetico, con una scansione temporale che segue più la logica musicale che quella verbale. Ma è nei silenzi, nelle sospensioni, che Pacino compie i suoi atti drammatici più profondi. Il silenzio non è mai vuoto: è spazio abitato, attesa gravida di senso, gesto narrativo che vale quanto una battuta.
Al Pacino non è semplicemente un grande attore. È un demiurgo della parola e del corpo, un custode della profondità drammatica in un tempo che spesso ne ha paura.
A 85 anni, non celebriamo solo la sua carriera, ma la sua instancabile ricerca dell’umano attraverso l’arte. In lui, il cinema ha trovato non solo un interprete, ma un pensatore del gesto e del silenzio.