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Gary Coleman: il bambino che fece ridere il mondo, e che il mondo dimenticò

Federico Falcone Posted On 23 Ottobre 2025
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Per milioni di spettatori nel mondo, Gary Coleman resterà per sempre il piccolo Arnold Jackson, con quella battuta che attraversò i decenni, “Che diavolo stai dicendo, Willis?”, e un sorriso capace di sciogliere qualsiasi tensione. Ma dietro quella maschera di gioia infantile si celava un’esistenza tormentata, segnata dalla malattia, dall’abuso e dal tradimento. La storia di Coleman è quella di un bambino prodigio che divenne un’icona della televisione americana, ma anche di un uomo che pagò a caro prezzo le conseguenze della celebrità.

Gary Wayne Coleman nacque il 8 febbraio 1968 a Zion, nell’Illinois, e fu adottato pochi giorni dopo la nascita. Fin dall’infanzia dovette affrontare una grave malattia renale, la glomerulosclerosi segmentaria e focale, che ne compromise la crescita e lo costrinse a cure estenuanti a base di corticosteroidi. I trattamenti arrestarono il suo sviluppo a 142 centimetri, lasciandogli per tutta la vita i tratti di un bambino. Subì due trapianti di reni, nel 1973 e nel 1984, entrambi falliti, e dovette sottoporsi regolarmente a dialisi.

Quel corpo minuto, però, nascondeva un’energia straordinaria e un talento naturale. A soli dieci anni, Coleman trovò nella recitazione la sua via di riscatto. Nel 1978 la NBC lanciò la serie “Diff’rent Strokes“, arrivata in Italia due anni dopo con il titolo “Il mio amico Arnold“. La sitcom raccontava di un ricco uomo bianco di Manhattan che adottava due fratelli afroamericani di Harlem, affrontando con leggerezza temi come il razzismo e le differenze sociali. Coleman, nei panni di Arnold Jackson, divenne immediatamente il centro dello show: il suo viso espressivo, la naturalezza davanti alla telecamera e quel tormentone irresistibile lo trasformarono nel bambino più pagato della televisione americana.

Tra gli ospiti della serie comparvero personaggi del calibro di Nancy Reagan, che partecipò a un episodio contro la droga, e Mr. T, allora simbolo della cultura pop americana.” Diff’rent Strokes” durò otto stagioni, fino al 1986, e rese Gary una star internazionale.

Mentre il pubblico rideva, la realtà era ben diversa. I genitori adottivi lo spinsero a lavorare senza sosta, ignorando le sue condizioni di salute e l’infanzia che stava bruciando sotto i riflettori. Quando, ormai adulto, tentò di riappropriarsi dei suoi guadagni, scoprì che il denaro, circa 18 milioni di dollari, era sparito. Fece causa ai genitori e al suo agente e vinse, ma nessuna sentenza poteva risarcirlo della fiducia perduta.

Hollywood, intanto, aveva voltato pagina. Coleman, prigioniero di un’immagine infantile dalla quale non riusciva a liberarsi, faticava a trovare nuovi ruoli. Tentò la fortuna in altri format: prestò la voce a un cartone animato a lui dedicato, “The Gary Coleman Show “(1982), apparve in “L’albero delle mele” e fece un cameo nella puntata finale di “Willy, il principe di Bel-Air” nel 1996. Ma la macchina della fama, che lo aveva lanciato, ora lo stava divorando.

Negli anni successivi, la vita di Coleman prese una piega amara. Lavorò come guardia di sicurezza, partecipò a programmi televisivi che lo usavano come caricatura di sé stesso, vendette all’asta i suoi ricordi di scena. “La celebrità è un peso — disse in una delle sue ultime interviste — ti rimane addosso anche quando non lavori più.” Nel 2003 si candidò a governatore della California, durante la caotica campagna elettorale che vide trionfare Arnold Schwarzenegger. Coleman ottenne oltre 14.000 voti, nonostante si fosse già ritirato dalla corsa.

La sua vita privata fu altrettanto complessa. Nel 2007 sposò Shannon Price, ma il matrimonio degenerò presto in conflitti. Apparvero insieme nel programma “Divorce Court”, versione americana di Forum, rivelando al pubblico un rapporto tossico e instabile. Coleman fu arrestato due volte, nel 2008 e 2009: prima per aver investito un pedone, poi con l’accusa di violenza domestica.

Il 28 maggio 2010, a 42 anni, Gary Coleman morì per un’emorragia cerebrale all’ospedale di Provo, nello Utah. Due giorni prima era caduto nella sua abitazione di Santaquin, battendo la testa. Ricoverato d’urgenza, perse conoscenza e fu mantenuto in vita artificialmente fino alla decisione della moglie di staccare i macchinari.

La sua morte rimase circondata da dubbi e sospetti, rilanciati dal documentario “Gary”, trasmesso nel 2024 sulla piattaforma Peacock. Alcuni amici dell’attore, intervistati, hanno espresso perplessità sulle circostanze della tragedia e sull’atteggiamento della moglie, la cui conversazione con il numero d’emergenza 911 viene tuttora analizzata per il tono freddo e distante. Coleman aveva lasciato precise direttive mediche chiedendo che il supporto vitale venisse interrotto solo dopo due settimane ma, in realtà, accadde dopo appena due giorni.

La parabola di Gary Coleman è una delle più emblematiche di Hollywood: un talento straordinario consumato dalla sua stessa immagine. Intrappolato nel corpo di un bambino, ma con la mente e le ferite di un adulto, Coleman divenne ciò che lui stesso definiva “il sacco da boxe di Dio”. Il documentario che ne ha riacceso il ricordo suggerisce che la sua storia sia tutt’altro che chiusa: resta il simbolo di un sistema capace di costruire miti effimeri e di dimenticare le persone reali dietro i personaggi.

Gary Coleman morì lontano dai riflettori, ma la sua eco continua. Ogni volta che una vecchia puntata de “Il mio amico Arnold” riappare in televisione, quel bambino dagli occhi vivaci torna a vivere, ricordandoci quanto fragile possa essere il confine tra la risata e il dolore.

Ricordando Jonathan Brandis: “morire è nulla, non sopravvivere è spaventoso”

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