Dalla realtà alla serie tv: Clark Olofsson, il ladro di cuori da cui nacque la Sindrome di Stoccolma
Ci sono criminali che spariscono nel silenzio delle carceri, sempre ammesso che ci arrivino, e poi ci sono quelli che diventano leggende. Clark Olofsson appartiene alla seconda categoria: un uomo capace di trasformare il crimine in spettacolo, il pericolo in seduzione, la paura in fascino. È lui, più di chiunque altro, a incarnare il mistero della Sindrome di Stoccolma, cioè quel paradosso psicologico in cui le vittime arrivano a provare empatia, comprensione, persino affetto per i propri sequestratori.
Ma prima di arrivare a quel celebre agosto del 1973, la storia di Olofsson è già un romanzo criminale pieno di fughe rocambolesche e colpi di scena. Il 4 febbraio 1969, evase dal carcere di massima sicurezza di Kumla, uno dei più duri della Svezia, e riuscì a fuggire fino alle Isole Canarie. Da lì prese un volo per Francoforte sul Meno, dove conobbe una ragazza con cui andò a convivere. La parentesi romantica durò poco perché la polizia tedesca lo arrestò per uso di un passaporto falso, e dopo il rimpatrio due agenti svedesi lo riportarono a Kumla.
Ma la cella non riusciva a trattenerlo a lungo. Due mesi prima del rilascio, nel 1973, Olofsson evase di nuovo, stavolta dal carcere di Lingata. La fuga finì il 3 febbraio dello stesso anno, quando una donna delle pulizie trovò una pistola nella stanza che lui occupava al Kurhotel di Ulricehamn. Fu arrestato nella sala da pranzo dell’hotel e condannato, nel maggio del 1973, a sei anni di prigione, trasferito poi al penitenziario di Kalmar.
È in questo periodo di detenzione che la sua leggenda incontra la storia. Nell’agosto del 1973 Olofsson si trovava nel carcere di Norrköping quando il rapinatore di banche Jan-Erik Olsson prese alcuni civili in ostaggio alla Sveriges Kreditbanken, nel cuore di Stoccolma. Il 23 agosto, la tranquilla mattina della capitale svedese si trasformò in uno dei momenti più assurdi e affascinanti della storia criminale europea. Olsson, armato e determinato, chiese una cosa insolita: che venisse rilasciato dal carcere proprio Clark Olofsson, suo vecchio complice e amico.
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Le autorità, nel tentativo di mediare, accettarono la richiesta. E così Clark fu condotto alla banca, dove rimase per sei giorni insieme agli ostaggi. Ma ciò che accadde dentro quelle mura superò ogni previsione. Con il suo carisma disarmante e la sua naturale capacità di manipolare il contesto, Olofsson divenne in breve tempo una figura ambigua: per alcuni un criminale freddo e calcolatore, per altri un protettore degli ostaggi. Parlava con loro, li tranquillizzava, li faceva ridere perfino. Quando la polizia minacciò di intervenire, gli ostaggi si schierarono con i sequestratori, provando paura per la sorte dei loro carcerieri e rifiutando poi di testimoniare contro di loro.
Fu allora che lo psichiatra Nils Bejerot coniò l’espressione destinata a entrare nella storia: Sindrome di Stoccolma. Un termine che divenne celebre in tutto il mondo e che, suo malgrado, consacrò Clark Olofsson a simbolo di un misterioso meccanismo psicologico in cui paura e fascinazione si confondono.
Olofsson venne in seguito condannato in primo grado, ma la Corte d’Appello lo assolse, riconoscendo che durante il sequestro aveva tentato di proteggere gli ostaggi dalle azioni più violente di Olsson. Tuttavia, dovette tornare in prigione per scontare la pena residua delle condanne precedenti. Le sue richieste di grazia e perfino quella di poter studiare diritto in carcere furono respinte. Ma il mito di Clark Olofsson era ormai più grande delle sbarre che lo circondavano.
Da quel momento, la figura di Olofsson travalicò la cronaca nera per diventare leggenda. L’opinione pubblica svedese lo vedeva come un bandito con lo charme di un attore e la mente di uno stratega. Dietro le rapine e le fughe spettacolari, c’era però una vita segnata da un’infanzia difficile e da un’irrequietezza cronica, alimentata da un irresistibile desiderio di sfidare ogni regola.
Nel corso dei decenni, Clark continuò a entrare e uscire dal carcere, accumulando condanne per rapine, traffico di droga e truffe, ma mantenendo intatta quell’aura di anti-eroe ribelle che lo rese, suo malgrado, un personaggio quasi romantico. La sua morte, avvenuta il 24 giugno 2025 in un ospedale di Arvika, ha chiuso definitivamente un capitolo della storia criminale svedese. Ma il suo mito resta inciso nella memoria collettiva come simbolo di un’epoca e di un mistero che ancora oggi interroga la psicologia umana.
Nel 2022, Netflix ha riportato in vita questa figura complessa con la serie “Clark“, interpretata da un magnetico Bill Skarsgård. La serie non è una semplice biografia, ma un viaggio psichedelico e ironico nella mente di un uomo che ha sempre vissuto al limite. Attraverso una narrazione frenetica, colorata e piena di eccessi, Clark alterna la realtà alla fantasia, la violenza al glamour, la follia al fascino. Skarsgård riesce a incarnare perfettamente la doppia natura del protagonista: irresistibile e pericoloso, affascinante e autodistruttivo. Ogni episodio mostra un frammento della sua vita (le rapine, le fughe rocambolesche, gli amori disastrosi, la fama mediatica) restituendo il ritratto di un uomo che ha trasformato la propria esistenza in una performance continua.
“Clark” è una serie audace, irriverente e visivamente esplosiva, che non pretende di assolvere o condannare il suo protagonista, ma di raccontarlo nella sua umanità caotica. La regia gioca con i toni del grottesco e del surreale, mentre la colonna sonora e l’estetica anni ’70 amplificano la sensazione di trovarsi dentro un trip criminale e psicologico. Il risultato è un racconto ipnotico, dove realtà e mito si confondono, proprio come nella vita di Olofsson.
Non è solo la storia di un criminale, ma quella di un uomo che ha saputo trasformare la propria infamia in leggenda. Quella di Clark Olofsson resta una figura che continua a dividere l’opinione pubblica: per alcuni un pericoloso manipolatore, per altri un genio del crimine con un sorriso disarmante. Ma forse, in fondo, è proprio questa ambiguità a renderlo eterno. Perché ogni leggenda, come ogni sindrome, nasce sempre da un legame oscuro tra paura e fascino, tra vittima e carnefice, tra verità e mito.
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