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Home » Arte Featured

Confini da attraversare: immagini, memoria e sguardi che restano

Fabio Iuliano Posted On 2 Novembre 2025
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Un viaggio fatto di immagini, incontri e sguardi che si riconoscono. Più che una sequenza di eventi, un attraversamento. Per diciassette giorni, Oltre – Geografia del confine ha trasformato Palazzo Romano a Gioia del Colle in una soglia: un luogo sospeso, tra ciò che resta alle spalle e ciò che attende dall’altra parte.

Diciassette giorni di arte e fotografia, dieci eventi tra mostre, talk e performance. Più di mille visitatori in presenza. Oltre centomila visualizzazioni online. Numeri che raccontano un movimento: persone che arrivano, osservano, si fermano. Perché qui il confine non è solo un margine, ma un invito.

Gli artisti e i fotografi hanno lavorato proprio su questo: l’idea di un confine che connette. Il corpo come territorio, la casa come identità, il mondo come luogo condiviso. Ogni progetto una traiettoria, ogni stanza un passaggio.

Tra i lavori esposti, uno in particolare ha trasformato il confine in memoria geografica: 42.334N / 13.334E di Mario Capriotti. Non le macerie del terremoto dell’Aquila, non il racconto del “prima e dopo”. Capriotti sceglie ciò che di solito non si fotografa: gli spazi che, pur rimasti integri, sono diventati terra di emergenza. Le coordinate geografiche riportano ai luoghi dove la Protezione Civile allestì le tendopoli dopo il 6 aprile 2009. Aree aperte, improvvisamente trasformate in dormitori, in attese, in comunità provvisorie. Confini cancellati, intimità sospesa. Quelli che erano parcheggi, campi, piazzali diventano punti di salvezza. Oggi sono tornati a essere luoghi anonimi. Capriotti li fotografa così: silenziosi, vuoti, attraversati da una presenza che non c’è più. Il confine, qui, è l’assenza.

Il progetto nasce da mappe, viaggi, sopralluoghi, una ricerca durata anni. Le foto sono il risultato di un movimento inverso rispetto all’urgenza giornalistica: non raccontare l’evento, ma ciò che resta quando l’evento scompare. La visione artistica di Alessandro Capurso, autore peraltro su un reportage fotografico di Taranto al tempo dell’Ilva insieme a Pamela Barba, valorizza questa lettura senza sovrastrutture. Capurso costruisce uno spazio di relazione: accosta le opere come frammenti di un discorso collettivo, lasciando al visitatore la possibilità di restare e ascoltare. La sua curatela mette in evidenza la forza simbolica del lavoro di Capriotti: quelle coordinate sono la prova che esistono confini che trasformano.

Accanto a Capriotti, la fotografia di Francesco Cito invita a un’altra forma di attraversamento. Nei workshop condotti durante il festival, Cito ha ribaltato l’idea della fotografia come gesto tecnico.
“Una foto nasce nella testa”. Prima di scattare, occorre pensare. Guardare. Decidere cosa si vuole raccontare. È un ritorno all’essenziale, alla fotografia come processo, non come automatismo.

Il festival ha coinvolto anche gli studenti dei licei e dell’Iti di Gioia del Colle attraverso i percorsi Pcto. Non spettatori, ma parte attiva. Hanno frequentato le sale, partecipato agli incontri, costruito dialoghi. Per loro il confine è diventato un territorio da esplorare.

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