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Cannes: La retorica che offusca il cinema

Redazione Posted On 26 Maggio 2025
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Il Festival di Cannes, da tempo considerato il faro mondiale del cinema d’autore, ha smarrito la sua identità più profonda. Negli ultimi anni, e in modo sempre più evidente, la kermesse francese sembra aver abbandonato la vocazione estetica e l’autenticità della ricerca cinematografica per trasformarsi in una passerella ideologica. Ciò che un tempo era una vetrina del rischio e della sperimentazione è diventato un teatro del politicamente corretto, dove i premi vengono assegnati più per ciò che i film rappresentano in termini sociopolitici che per il valore artistico intrinseco delle opere.

L’edizione 2025, che avrebbe potuto segnare un’inversione di rotta, si è invece confermata come l’ennesima celebrazione del cinema come strumento di affermazione ideologica. La Palma d’Oro assegnata a It Was Just an Accident di Jafar Panahi è solo l’ultimo capitolo di una tendenza ormai consolidata. Il film, girato clandestinamente in Iran, racconta la storia di ex detenuti politici che mettono in atto una vendetta surreale contro il proprio carnefice. Ma più che una vera narrazione cinematografica, si tratta di un’opera frammentaria, debole nella struttura e incerta nel tono.

Leggi anche: Recensione. “Fuori” dalla festa: Martone racconta Cannes meglio di Cannes stessa

Il premio a Panahi, indubbiamente una figura centrale della resistenza artistica iraniana, sembra rispondere più a un bisogno di affermazione politica da parte del festival che a una vera ammirazione per il valore del film in sé. Il messaggio, il contesto, il coraggio personale del regista: tutto encomiabile. Ma tutto esterno all’opera. Cannes non ha premiato un film: ha premiato una situazione.

Lo stesso schema si ripete nella maggior parte delle scelte fatte dalla giuria, guidata da Juliette Binoche. Il premio alla Miglior Regia a Kleber Mendonça Filho per The Secret Agent, ambientato nel Brasile degli anni ’70, è l’ennesima dimostrazione della deriva moralista del festival. Il film ha una confezione curata, certo, ma è privo di vera urgenza stilistica. È cinema da dibattito post-proiezione, non da visione memorabile. Anche la performance premiata di Wagner Moura rientra in un cliché ormai stanco: attore impegnato in una ricostruzione storica con sfondo repressivo, applaudito più per l’intenzione che per il risultato.

Non va meglio sul versante femminile: il premio a Nadia Melliti per The Little Sister conferma l’ossessione della giuria per la rappresentazione identitaria, anche quando questa è affrontata in maniera piatta, con uno sguardo che non va oltre l’illustrazione delle dinamiche già note. La recitazione è buona, ma il film non lascia traccia. È un cinema pensato per il comunicato stampa, non per la memoria dello spettatore.

I premi cosiddetti “minori” — Grand Prix, Premio della Giuria, Miglior Sceneggiatura — non offrono respiro. Sentimental Value di Joachim Trier, vincitore del Grand Prix, è un’opera talmente leggera da svanire già durante la visione. Una commedia agrodolce con pretese esistenziali che non osa nulla. Sound of Falling e Sirât, vincitori del Premio della Giuria, sono due esempi di quella tendenza autoriale che finge profondità con lungaggini e silenzi, ma in realtà non ha nulla da dire che non sia già stato detto — e meglio — da altri.

Il premio alla Miglior Sceneggiatura ai fratelli Dardenne è, ancora una volta, una sorta di riflesso pavloviano. Ogni due o tre anni, i Dardenne ritornano con una storia moralista dal sapore sociale e Cannes li premia, come se fosse un rito da rispettare più che un giudizio da esprimere. Ma la loro poetica, un tempo potente, è oggi ridotta a ripetizione manierata.

L’unico momento di verità dell’intera manifestazione è arrivato dai premi alla carriera, assegnati a Robert De Niro e Denzel Washington. In mezzo al compiacimento e all’ossessione per la rilevanza immediata, questi riconoscimenti hanno ricordato al pubblico che il cinema, quando è grande, non ha bisogno di essere giustificato dal contesto. De Niro e Washington sono stati premiati per ciò che hanno fatto, per ciò che sono stati e continuano a essere sullo schermo: interpreti di una grandezza che non ha bisogno di aggettivi.

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È proprio questo che manca a Cannes: il coraggio di tornare a giudicare le opere per quello che sono, non per quello che rappresentano. Il festival si è trasformato in uno specchio del mondo, ma ha dimenticato di essere quel martello di cui parlava Brecht. Inseguendo temi, urgenze sociali, correttezze formali e messaggi gridati, ha dimenticato il cuore stesso del cinema: la visione.

Non si tratta di opporsi al cinema politico, sociale, impegnato. Si tratta di chiedere che anche quel cinema risponda a criteri estetici, narrativi, linguistici. Che sia cinema, non solo messaggio. Cannes, purtroppo, da anni non seleziona più il meglio del cinema, ma ciò che meglio si adatta al proprio schema ideologico. Il rischio è che il festival più importante del mondo diventi il più prevedibile.

Cannes non è più un luogo di scoperta, ma di conferma. E il cinema, per vivere, ha bisogno esattamente dell’opposto.

Articolo di Carlo Di Stanislao

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