“Buon compleanno, Mr. Grape”: dal romanzo al film, la malinconia di Peter Hedges e Lasse Hallström
C’è un posto, nell’Iowa, dove il tempo sembra essersi addormentato. Si chiama Endora, ed è un nome che suona quasi ironico per la piccola prigione di case sbiadite, supermercati in costruzione e strade che non portano mai davvero altrove. È qui che vive Gilbert Grape — un giovane uomo con il volto fragile e assorto di Johnny Depp — e la sua famiglia, sospesa tra la rassegnazione e un amore che resiste, stanco ma tenace, dentro le pieghe del dolore.
Il film di Lasse Hallström, “Buon compleanno, Mr. Grape” (“What’s Eating Gilbert Grape” in inglese), tratto dall’omonimo romanzo di Peter Hedges, è uno di quei ritratti d’America che si insinuano piano, come una brezza malinconica, e restano. È la storia di una famiglia ferita e di un ragazzo che, pur non avendo chiesto nulla, si ritrova a sorreggere il mondo.
Gilbert ha ventiquattro anni e lavora in una drogheria locale, un luogo in via d’estinzione, come lui. Da quando il padre si è impiccato nel seminterrato, la madre — Bonnie, interpretata da una straordinaria Darlene Cates — ha smesso di vivere: la sua obesità non è solo fisica, ma simbolica, un peso che grava sull’intera famiglia. Da sette anni non esce di casa, vive sul divano, divorando dolci e rimpianti.
Su Gilbert grava la responsabilità del fratellino Arnie, un adolescente con disabilità intellettiva, interpretato da un Leonardo DiCaprio diciannovenne che all’epoca lasciò Hollywood senza parole. Arnie è la purezza e l’imprevedibilità incarnate: si arrampica sul serbatoio dell’acqua, ride senza motivo, urla il mondo intero senza filtri. “Nessuno tocchi Arnie” è la regola sacra di Gilbert, il suo comandamento privato. Ma quella protezione assoluta lo consuma: il senso del dovere diventa catena, e la vita sembra scivolare via.
Poi, un giorno, arriva Becky (Juliette Lewis), viaggiatrice involontaria il cui camper si è rotto lungo la strada. È un’apparizione, quasi un presagio. Gilbert la incontra e, per la prima volta, intravede la possibilità di un futuro diverso. Becky porta con sé la leggerezza dell’altrove, quella che a Endora non esiste: parla di libertà, di strade aperte, di scelte.
La loro storia nasce in sordina, con silenzi e sguardi. Ma proprio quando Gilbert comincia a respirare, commette l’errore di lasciare Arnie da solo nel bagno. Il ragazzo resta chiuso per ore, terrorizzato, e quella colpa segna Gilbert come una cicatrice. È un film di piccoli fallimenti, Mr. Grape, dove ogni gesto pesa, ogni disattenzione fa rumore.
C’è una scena che resta impressa: Bonnie Grape, dopo anni, esce di casa per riprendere Arnie dallo sceriffo. Gli abitanti del paese la osservano, ridono, la fotografano come fosse un fenomeno da circo. È un momento di umiliazione e di coraggio insieme, perché Bonnie affronta il mondo che l’ha dimenticata. Poco dopo, il cuore cede: muore nella sua stanza, finalmente distesa, come se la fatica del vivere si fosse conclusa.
Gilbert e le sorelle decidono di bruciare la casa con il corpo della madre dentro, per risparmiarle la crudeltà del giudizio altrui. È un gesto estremo ma poetico, un atto d’amore e di liberazione. Il fuoco, simbolo di rinascita, chiude il cerchio. Un anno dopo, vediamo Gilbert e Arnie seduti al ciglio della strada: è quasi il compleanno di Arnie, e arriva il camper di Becky. Lei si ferma. Forse Endora può finalmente essere lasciata alle spalle.
Peter Hedges, autore del romanzo e anche della sceneggiatura, conosce bene il Midwest e i suoi silenzi. Il suo libro, pubblicato nel 1991, è più graffiante, più crudele nel descrivere l’isolamento della provincia americana. Gilbert, sulla pagina, è un narratore stanco e ironico, che osserva la propria vita con un sarcasmo dolente. Nel film, invece, Hallström smussa gli angoli, trasforma la malinconia in poesia visiva, e regala ai personaggi una dolcezza che il libro non concede.
Laddove il romanzo mostra una famiglia sull’orlo della rovina, il film trova ancora spazio per la redenzione. Non c’è cinismo, ma uno sguardo compassionevole, come quello che Hallström aveva già portato in “La mia vita a quattro zampe“, lo stesso equilibrio tra dolore e grazia, tra dramma e leggerezza.
Johnny Depp, appena uscito dal mondo gotico di “Edward mani di forbice“, offre un’interpretazione intima e silenziosa, tutta negli occhi. Il suo Gilbert è un ragazzo intrappolato in un ruolo che non ha scelto, incapace di ribellarsi ma anche di smettere di amare. Leonardo DiCaprio, invece, è pura esplosione: un’interpretazione così istintiva e autentica da fargli guadagnare la sua prima nomination all’Oscar. Nessuno, allora, immaginava che quel “bamboccino rumoroso” sarebbe diventato uno degli attori più grandi della sua generazione.
Il contrasto tra loro — la calma trattenuta di Depp e l’energia incontrollabile di DiCaprio — è la vera magia del film. Sul set, raccontano, i due non andarono particolarmente d’accordo. Eppure, sullo schermo, sembrano fratelli per davvero. “Buon compleanno, Mr. Grape” è un film piccolo e universale, uno di quelli che non cercano il clamore ma lasciano un’eco. Racconta la vita dove nulla accade, dove la gente resta ferma perché non ha alternative, dove l’amore è l’unico modo per sopravvivere al dolore. È la provincia americana vista senza giudizio: ruvida, immobile, ma umana.
Rivisto oggi, trent’anni dopo, il film conserva quella malinconia sospesa, anche se il suo ritmo appare lento, figlio di un cinema che non aveva fretta di spiegare tutto. Hallström non cerca l’emozione facile: la trova, piuttosto, nei gesti minimi, nei respiri, nei silenzi tra due fratelli che si tengono per mano. Quando Arnie compie diciannove anni, non è più solo il suo compleanno: è quello di Gilbert, della madre, di tutti loro. È la nascita di una nuova vita, finalmente libera dal peso di Endora.
Forse è questo il vero messaggio del film: che a volte bisogna bruciare la casa per poter ripartire. Che l’amore non è solo cura, ma anche il coraggio di lasciar andare. E mentre il camper di Becky si allontana lungo la strada, con Gilbert e Arnie seduti accanto a lei, sembra che anche Endora, per un attimo, respiri.



