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Addio a Sebastiao Salgado, il fotografo amante degli angoli nascosti della Terra

Federico Falcone Posted On 23 Maggio 2025
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Il mondo della fotografia, dell’arte e dell’ambientalismo piange Sebastião Salgado, morto quest’oggi all’età di 81 anni a seguito delle complicazione di una grave forma di leucemia, sviluppata in seguito alle complicazioni della malaria contratta durante il progetto Genesis nel 2010. La notizia è stata diffusa dall’Instituto Terra – la fondazione di riforestazione creata con la moglie Lélia Wanick – e confermata dall’Académie des Beaux-Arts e subito ha suscitato un’ondata di cordoglio nell’intero pianeta dell’arte.

Nato l’8 febbraio 1944 ad Aimorés, nel cuore minerario del Minas Gerais, Salgado arrivò alla fotografia per deviazione: laurea in economia a São Paolo, dottorato a Parigi, poi missioni in Africa per l’Organizzazione Internazionale del Caffè. Nel 1973 abbandonò grafici e bilanci per affilare la Leica: “Là dove vedevo numeri, improvvisamente ho visto volti“, raccontava spesso. Dopo gli esordi con Sygma e Gamma, fu accolto dalla Magnum e nel 1994 fondò con Lélia la piccola ma indipendente agenzia Amazonas Images, dedicandosi a progetti di lunga durata che avrebbero ridefinito il fotogiornalismo.

Workers (1993) incise nel negativo la fatica ancestrale dell’uomo; Migrations/Exodus (2000) mappò l’esodo planetario dei senza-terra; Genesis (2004-2013) celebrò la Terra prima dell’uomo, mentre l’esposizione Amazonia portò nelle capitali europee il respiro della foresta. Ogni progetto nasceva da un ritmo lento, quasi liturgico: mesi di immersione, stampe al carbone, una gamma di neri che sembrava rubata al chiaroscuro del Rinascimento. Mostre monografiche sono state ospitate dal MoMA alla Tate, e il documentario Il sale della terra di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado ha consegnato al grande pubblico il dietro le quinte di quella ricerca instancabile.

Leggi anche: Roma celebra Mario Giacomelli con una mostra per i 100 anni dalla sua nascita

Dopo aver assistito al genocidio in Ruanda, Salgado confessò di «aver perso la fede nell’umanità». La risposta fu un ritorno alla fazenda di famiglia, devastata dall’erosione: qui, con Lélia, piantò due milioni di alberi, trasformando 700 ettari in un laboratorio di rinascita tropicale. L’Instituto Terra è oggi un modello internazionale di rigenerazione ambientale, con centinaia di specie native recuperate e programmi educativi per le comunità locali. «Restituire la foresta – spiegava – è la mia fotografia più lunga».

Sette riconoscimenti al World Press Photo, il Principe delle Asturie per le Arti (1998), il Hasselblad Award e l’elezione all’Académie des Beaux-Arts nel 2016 testimoniano la statura di un autore che ha unito rigore sociologico e visione romantica. Ma il premio più duraturo rimane l’alfabeto morale che le sue immagini ci consegnano: un invito a guardare gli ultimi come primi e la natura come radice del futuro.

Salgado lascia la moglie, i figli Juliano e Rodrigo e un archivio di oltre mezzo milione di negativi: un atlante dello spirito umano, impresso con la stessa delicatezza con cui si sfiora la pellicola fotografica. Oggi quelle immagini continuano a parlarci, ricordandoci che «la fotografia è un atto d’amore verso il mondo».

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