“Lunedì 21 novembre 1825… Angelo Targhini, Leonida Montanari, Pompeo Garofolini, Luigi Spadoni, Ludovico Gasperoni, Sebastiano Ricci… Delitto di lesa Maestà, e di ferimento con prodizione… La Commissione Speciale condanna Angelo Targhini di Brescia e Leonida Montanari di Cesena alla Pena di Morte, Luigi Spadoni di Forlì e Pompeo Garofolini romano alla Galera a Vita e gli altri alla Galera per dieci anni… (proscritte Società Segrete… Setta Carbonica). Roma, Poggioli, 1825”. (Sentenza riportata su manifesto di condanna A.D. 1825).
Ci sono storie, a Roma, vive da secoli e che si tramandano di generazione in generazione. Storie di una Roma popolana che non c’è più, e che parlano de balli de corte, de Castel Sant’Angelo, de carbonari, de Pasquino, de li cardinali e de li rivoluzionari. Questa è una di quelle e parla di due carbonari, Angelo Targhini e Leonida Montanari, che sotto papa Leone XII furono condannati e decapitati in Piazza del Popolo.
IL FATTACCIO – Nel 1825 il rapporto tra Stato pontificio e popolo romano era minato da profondi contrasti. I moti carbonari che andavano sorgendo in tutto il regno, facevano sì che Papa Leone XII impiegasse l’esercito pontificio nel tentativo di soffocare le ribellioni dei sudditi più turbolenti. Tra le più “celebri” congreghe dell’epoca vi era quella denominata Costanza, istituita dal bresciano Angelo Targhini, figlio del cuoco di Pio VII, e che, in quel periodo, vide l’adesione del chirurgo cesenate Leonida Montanari. Capitò altresì che un ennesimo partecipante alla Costanza, tal Filippo Spada (detto Spontini e talvolta indicato nei documenti dell’epoca come Giuseppe Pontini, nobile incapricciato di giacobinismo), decidesse di fare da delatore e spia per le autorità governative.
Proprio per via delle persecuzioni poliziesche che spingevano le stesse sette carbonare ad un clima avvelenato da sospetti e tradimenti interni, e in modo che ciò fungesse da monito per altri eventuali traditori, il “governo carbonaro” scelse per la condanna del Principe Spada.
Il fatto avvenne nella notte tra il 4 e il 5 giugno. Nel mentre di una passeggiata in compagnia del Targhini nei pressi della Basilica Sant’Andrea della Valle, nel rione Sant’Eustachio, Pontini riceve una coltellata al fianco, che si rivelerà non mortale. La documentazione che ci arriva dall’epoca, non è sufficiente a far luce sull’effettiva dinamica dei fatti e sul reale coinvolgimento dei carbonari alla “spedizione” ed anzi, lascia spazio a versioni contrastanti dell’accaduto.
Addirittura alcuni cronisti riportano di come il fatto sia in realtà accaduto di fronte alla farmacia gestita allora dal Montanari, chirurgo e farmacista di stanza a Rocca di Papa e che lo stesso medico, notato che la vittima ancora respirava, tentò di terminare l’opera, venendo colto in fallo dalle forze dell’ordine. Note sono, invece, le conseguenze che scaturirono da quel gesto. La reazione del pontefice fu feroce: Targhini e numerosi esponenti della Costanza furono arrestati, mentre Montanari, inizialmente scampato all’arresto, finì con l’essere fermato due mesi dopo.
Il volere di papa Leone XII era quello di mandare un segnale chiaro e terribile a chiunque portasse velleità riottose: fu allestito un tribunale speciale col compito di condannare gli imputati senza dar loro la possibilità di difendersi, e la cui sentenza fu dichiarata inappellabile, dichiarando altresì secretati i verbali delle discussioni, le votazioni e gli esiti.
Se, però, sul Targhini gravava l’accusa dello stesso Pontini, è bene ricordare di come sul Montanari non pendessero particolari prove, se non la confessione del confratello Garofolini. Nella propria deposizione, quindi, il Montanari si dichiarò estraneo ai fatti, non negando tuttavia il suo appoggio alla carboneria, se non per ideali di “puro amor di Patria”. Ritenendolo comunque tra i mandanti della spedizione, le autorità pronunciarono la sentenza condannando Targhini e Montanari alla Pena Capitale.
L’esecuzione avvenne nella sera del 23 novembre 1825 sotto l’operato dell’allora famigerato boia romano dello Stato Pontificio, Mastro Titta, che, per sue stesse parole, secondo quanto riportato nell’anonimo documento Mastro Titta, il boia di Roma: Memorie di un carnefice scritte da lui stesso, dichiarava:
“… decapitai al Popolo (inteso come Piazza del Popolo) Leonida Montanari e Angiolo Targhini, due cospiratori contro il governo di Sua Santità, appartenenti alla setta dei Carbonari, i quali avevano gravemente ferito un loro compagno, tale Spontini, sospettando che li avesse traditi e denunziati all’autorità. Di questa esecuzione si fecero di molti discorsi in Roma, perché la tenebrosa associazione alla quale appartenevano incuteva spavento alla popolazione di Roma, onesta, timorata e fedele al Papa. Ma benché si sussurrasse di tumulti ed insurrezioni preparate dai loro confratelli, per sottrarli al patibolo, la tranquillità, grazie alle sagge ed energiche disposizioni adottate dal governo, non fu menomamente turbata. Ecco come si svolsero i fatti.
Un affigliato, certo Angiolo Targhini, romano, fu incaricato dell’operazione. Era un popolano d’animo deliberato e di braccio sicuro. Una sera Targhini passa dalla farmacia Peretti e vedendo lo Spontini sulla porta, l’invita a seguirlo, dicendo dovergli parlare di cosa grave. Spontini accondiscende e lo segue.
Svoltano per il vicolo di Sant’Andrea buio e deserto: Targhini si guarda attorno un momento e, non vedendo nessuno, trae un pugnale dalla tasca in petto dell’abito e lo infigge in seno allo Spontini dalla parte del cuore. Spontini cade e Targhini si allontana con rapido passo con un altro che l’attendeva. Spontini non era morto.
Chiama aiuto; accorrono verso di lui due carabinieri pontifici che pattugliavano in quei pressi e lo trovarono seduto per terra, col capo appoggiato alla colonnetta, che stava sotto la cappelletta della Madonna, illuminata dalla lampada, sull’angolo del palazzo. Esaminatolo lo trovano ferito e vanno alla farmacia Peretti a chiedere se c’era qualche medico, per aiutare il malcapitato e giudicare se era trasportabile. Esce fuori il chirurgo Leonida Montanari di Cesena e s’avviano verso il ferito, sempre al medesimo posto. Montanari tira fuori la busta chirurgica, vi prende uno specillo, si mette a specillare la ferita e non la trova mortale.
Ma uno dei carabinieri che osservava attentamente il Montanari, si accorge che collo specillo tentava di approfondire la ferita. Non gliene lascia il tempo; gli toglie lo specillo e gli lega i polsi con un buon paio di manette. Poi, chiamata man forte, condussero il Leonida Montanari alle carceri; Spontini alla Consolazione, ove lo guarirono della sua ferita.
Fu eretto il processo contro il Targhini, del quale il ferito declinò il nome, accusandolo del fatto, e che venne tosto arrestato e contro il Montanari, che aveva tentato di compir l’opera, e, quantunque opponessero i più sfrontati dinieghi, furono condannati dalla Sacra Consulta alla decapitazione. Si temeva che per l’esecuzione gli altri settari volessero tentare qualche colpo audace, e furono prese tutte le disposizioni opportune. Quanto a me, sebbene avessi ricevuto una quantità di lettere anonime, che mi minacciavano di morte se avessi fatta l’esecuzione, ho compiuto il mio dovere senza esitanza.
Era uno spettacolo imponente. Piazza del Popolo era gremita di gente, come non la vidi mai. Quando vi arrivammo colla carretta i soldati stentarono ad aprirci il varco. Giunti sotto il palco, che avevo eretto durante la notte, col concorso del mio aiutante, Targhino prima e Montanari poi scesero colla maggior franchezza di questo mondo, e ne salirono i gradini circondati dai confortatori, saltellando quasi. Tutti i tentativi per indurli al pentimento ed alla confessione riuscirono vani. – Non abbiamo conto da rendere a nessuno: il nostro Dio sta in fondo alla nostra coscienza – rispondevano invariabilmente.
Avevo avuto ordine da Monsignor Fiscale di far presto e i confortatori, a quanto credo, lo stesso. Quindi non si perdette altro tempo. Li legai solidamente ai polsi, perché avevano rifiutato di lasciarsi bendare, poi spinsi innanzi Angelo Targhini, che porse il capo sorridendo alla ghigliottina e in un secondo fu spedito. Leonida Montanari mi salutò beffardamente dicendomi: «Addio collega.» e fece poi come il Targhini e come il Targhini lo spedii al Creatore.
Ci fu un subitaneo movimento nella folla; pareva volesse scoppiare un applauso. Ma la vista della forza armata la contenne e non si ebbe a deplorare il benché menomo incidente.”.
È presumibile dedurre che il documento di cui sopra, in realtà, altro non sia che un falso storico; e che lo stesso Mastro Titta abbia lasciato solo un taccuino su cui erano indicati i nomi dei condannati, il motivo delle condanna e i luoghi dell’esecuzione.
Sul patibolo, i due carbonari continuarono a proclamarsi innocenti e frammassoni, rifiutando i sacramenti.
Vennero infine gettati lungo il Muro Torto, in terra sconsacrata e nella fossa in cui finivano i corpi di ladri, suicidi, vagabondi e prostitute.
La morte dei due giovani “…per burla di processo…” segnò pesantemente l’opinione pubblica, fungendo da ispirazione per il sorgere di nuove realtà carbonare e gettando le basi per i moti risorgimentali che condurranno alla futura Unità Nazionale.

Ancora oggi, appena entrati da Porta del Popolo, sul fianco della caserma dei Carabinieri, si può notare la targa dedicata ai due carbonari e che dal 1909 recita: “Alla memoria dei carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari che la condanna di morte ordinata dal papa, senza prove e senza difesa, in questa piazza serenamente affrontarono il 23 novembre 1825”.
NELL’ANNO DEL SIGNORE – La vicenda ebbe grande risonanza all’epoca dei fatti, in special modo tra il Popolo romano. Lo stesso regista capitolino Luigi Magni, dirigerà nel 1969 il film Nell’anno del Signore, primo atto della cosiddetta trilogia papalina ed ispirata ai fatti di quel 23 novembre 1825. L’Opera del cineasta romano è una critica ferocissima allo stato pontificio e alla struttura ecclesiastica in toto. Al trentesimo posto dei film italiani più visti di sempre, conta la colonna sonora del Maestro Armando Trovajoli e un cast stellare. È così che Montanari prende il volto di Robert Hossein (Angelica, I Miserabili), Enrico Maria Salerno (Casanova ’70, L’armata Brancaleone, L’uccello dalle piume di cristallo) diventa il Capitano delle guardie, e Ugo Tognazzi è il Cardinal Rivarola. Parallelamente alla storia dei due carbonari, si delinea la travagliata e non corrisposta storia d’amore tra il “calzolaro” Cornacchia/Pasquino (un Nino Manfredi clamoroso) e la “giudìa” Giuditta Di Castro, che porta gli occhi di Claudia Cardinale. La ciliegina sulla torta è rappresentata da quel frate incaricato di condurre i carbonari al pentimento e che è magistralmente interpretato da Alberto Sordi.
Numerose sono, tuttavia, le incongruenze che il film contiene. Angelo Targhini era bresciano mentre nel film è indicato come modenese e lo stesso Leonida Montanari, di padre cesenate, è raffigurato come un maturo medico romano. Nell’Opera il cardinale che si fa carico della condanna è Rivarola, che pur viene indicato come veneto, anziché genovese. Nella realtà, a pronunziare la sentenza è invece il cardinal Bernetti. In una delle scene più toccanti, inoltre, si ode Paolina Bonaparte che, in pieno ghetto ebraico, suona il “pianforte”. Nella realtà dei fatti, la stessa sorella di Napoleone abitava in tutt’altra zona di Roma, ossia nel Palazzo Bonaparte di Piazza Venezia.
PASQUINO – Figura estranea alla vicenda reale ma punto cardine attorno a cui ruota l’Opera di Luigi Magni, è Pasquino: la più famosa delle statue “parlanti” di Roma. La statua di Pasquino è un frammento risalente al periodo ellenista, raffigurante probabilmente un eroe greco che ne sorregge un altro, ma ben radicata nel folklore romano. Sita in Piazza Pasquino, Rione Parione, diede con gli anni il nome a quelle che ad oggi sono note col nome di “Pasquinate”: manifesti e sfottò che nottetempo venivano appese al collo della statua da “satirici epigrammatici”, tra cui lo stesso Pasquino, in segno di protesta e scherno nei confronti dell’opprimente potere esercitato durante la Roma papalina.
In realtà l’origine del nome è avvolta dal mistero e secondo alcune versioni, sarebbe da ricondurre alla figura del misterioso Pasquino (un barbiere, un sarto o il calzolaio di Luigi Magni) che imperversava nel rione, diffondendo i suoi versi satirici nel tentativo di risvegliare le coscienze popolari.