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21 ottobre 1975: cinquant’anni d’amore secondo “Will Hunting – Genio ribelle”

Sara Paneccasio Posted On 21 Ottobre 2025
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Ci sono date che restano nella storia e altre che rimangono soltanto nel cuore. 21 ottobre 1975: per Sean Maguire, lo psicologo interpretato dal magistrale Robin Williams in “Will Hunting – Genio ribelle“, è il giorno in cui tutto ha avuto inizio, quello in cui ha conosciuto il vero amore.
Una partita di baseball, un biglietto atteso per tutta la vita e un incontro casuale in un bar. È così che nasce una delle più autentiche storie d’amore del cinema moderno.

Will: Si è mai domandato come sarebbe stata la sua vita se non avesse incontrato sua moglie?
Sean: Cioè? Se sarei stato meglio senza di lei? È una domanda importante perché avrai dei momenti difficili ma ti faranno apprezzare le cose belle alle quali non prestavi attenzione.
Will: E non si rammarica dell’incontro con sua moglie?
Sean: Perché? Per il dolore che provo adesso? Ho molto di cui rammaricarmi, ma non mi rammarico di un solo giorno insieme a lei.
Will: quando ha saputo che lei era la donna giusta?
Sean: Il 21 ottobre 1975.
Will: Cristo santo, sa perfino la data!
Sean: Oh sì! Era la sesta partita delle world series di baseball…

E segue quel racconto leggendario: il biglietto per una partita storica dei Boston Red Sox, la palla battuta da Carlton Fisk, trentacinquemila tifosi in delirio. E un uomo che, invece di correre allo stadio, resta in un bar con una sconosciuta che “illuminava il locale”.
“Spiacente amici, devo occuparmi di una ragazza”, dice Sean, lasciando il biglietto sul tavolo. È una delle frasi più romantiche mai pronunciate sullo schermo, perché racchiude una verità universale: l’amore non è mai nella grande occasione, ma nella scelta silenziosa di restare.

Leggi anche: Will Hunting – Genio ribelle: le fragilità dell’uomo nel cult di Gus Van Sant

Sean parla di Nancy, la moglie scomparsa, con la naturalezza di chi sa che l’amore non vive di idealizzazione ma di quotidianità. In una delle scene più delicate e autentiche del film, racconta a Will che ciò che gli manca non sono le grandi cose, ma i dettagli imperfetti:

Sean: Mia moglie scoreggiava quando era nervosa. Aveva una serie di meravigliose debolezze. Aveva l’abitudine di scoreggiare nel sonno! [ridono] Scusa se ti racconto questa cosa. Una volta fu talmente forte che svegliò il cane! [ridono] Si svegliò anche lei e mi disse: “sei stato tu?”; e io: “sì”… Non ho avuto il coraggio.
Will: [ridendo]: Si è svegliata da sola?
Sean: Eh, sì! [ridono]… Oh, Signore… aah, ma, Will, è morta da due anni e questo è quanto mi ricordo. [Will smette di ridere] Momenti stupendi, sai, piccole cose così. Però… sono queste le cose che più mi mancano. Le piccole debolezze che conoscevo soltanto io. Questo la rendeva mia moglie. Anche lei ne sapeva delle belle sul mio conto, conosceva tutti i miei peccatucci! Queste cose la gente le chiama imperfezioni, ma non lo sono. Sono la parte essenziale. Poi dobbiamo scegliere chi fare entrare nel nostro piccolo strano mondo. Tu non sei perfetto, campione. E ti tolgo dall’incertezza: la ragazza che hai conosciuto, non è perfetta neanche lei. Ma la domanda è se siete o no perfetti l’uno per l’altra. È questo che conta. È questo che significa intimità.

Questo dialogo – per buona parte improvvisato da Robin Williams – è un colpo al cuore. Perché smonta l’idea hollywoodiana dell’amore ideale e restituisce la verità più semplice: la vita si costruisce nelle piccole cose, nei gesti quotidiani, nelle risate condivise e anche nei momenti di malattia e dolore. Sean lo dice chiaramente: “Non mi rammarico dei diciotto anni di matrimonio con Nancy, né dei sei anni in cui ho rinunciato all’assistentato perché stava male. E certo non mi rammarico di aver perso una partita. Lo rifarei.”
Dietro quella frase c’è l’accettazione serena di chi ha amato davvero, fino alla fine.

Leggi anche: Recensione. “Good Boy” di Jan Komasa: educare con la violenza, amare con il guinzaglio

La grandezza di “Will Hunting – Genio ribelle” sta tutta in questo: nel modo in cui oppone la teoria alla vita, il sapere al sentire. Will è un genio, ma è anche un ragazzo spaventato, convinto che la conoscenza basti a proteggerlo dal dolore. Sean lo smonta pezzo per pezzo in uno dei monologhi più memorabili del cinema, per poi trascinarlo dentro una verità che non si legge nei libri:

[…] Se ti chiedessi sulle donne, probabilmente mi faresti un compendio sulle tue preferenze, potrai perfino aver scopato qualche volta… ma non sai dirmi che cosa si prova a risvegliarsi accanto a una donna e sentirsi veramente felici. Sei uno tosto. E se ti chiedessi sulla guerra probabilmente mi getteresti Shakespeare in faccia eh? “Ancora una volta sulla breccia, cari amici!”… ma non ne hai mai sfiorata una. Non hai mai tenuto in grembo la testa del tuo migliore amico vedendolo esalare l’ultimo respiro mentre con lo sguardo chiede aiuto. Se ti chiedessi sull’amore probabilmente mi diresti un sonetto. Ma guardando una donna non sei mai stato del tutto vulnerabile… non ne conosci una che ti risollevi con gli occhi, sentendo che Dio ha mandato un angelo sulla terra solo per te, per salvarti dagli abissi dell’Inferno. Non sai cosa si prova ad essere il suo angelo, avere tanto amore per lei, vicino a lei per sempre, in ogni circostanza, incluso il cancro. Non sai cosa si prova a dormire su una sedia d’ospedale per due mesi tenendole la mano, perché i dottori vedano nei tuoi occhi che il termine “orario delle visite” non si applica a te. Non sai cos’è la vera perdita, perché questa si verifica solo quando ami una cosa più di quanto ami te stesso: dubito che tu abbia mai osato amare qualcuno a tal punto […]

Questo monologo è un capolavoro dentro il capolavoro. È la voce dell’esperienza che abbraccia l’arroganza del giovane, il dolore che diventa insegnamento, la vita che sconfigge la teoria.

A fare da contrappunto ci sono gli altri personaggi: il professor Lambeau, simbolo dell’ambizione sterile, e Skylar, l’unica che riesce a sciogliere la dura corazza di Will. “Hai paura di me! Hai paura che io possa non amarti! La sai una cosa? Anch’io ho paura. Cazzo, voglio fare un tentativo, almeno io sono onesta con te.”

È la dichiarazione più sincera che Will riceve, e anche quella che più lo spaventa. Perché amare significa fidarsi, e fidarsi significa lasciarsi ferire. Ma sarà Sean a guarirlo davvero, con la frase che chiude il loro percorso: “Non è colpa tua.” Ripetuta, come una carezza, fino a sciogliere ogni corazza.

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Insomma “Will Hunting – Genio ribelle” non è un film sul genio, ma sulla vulnerabilità. Sull’importanza di lasciarsi conoscere, di condividere le proprie paure, di accettare le proprie cicatrici. È un inno alla vita reale – fatta di notti insonni, di risate improvvise, di malattie affrontate insieme, di scorregge nel sonno e di silenzi che dicono tutto. E in mezzo a questo caleidoscopio di emozioni, resta una data, semplice e immortale: 21 ottobre 1975, il giorno in cui un uomo rinunciò a una partita per un amore. E in quella scelta, trovò il senso di tutta la vita

A distanza di oltre venticinque anni, “Will Hunting – Genio ribelle” resta una lezione di empatia, scritta con sincerità da due ragazzi allora poco più che ventenni, Matt Damon e Ben Affleck, e resa eterna dall’anima di Robin Williams. La sua improvvisazione, la sua dolce malinconia, la sua capacità di dire tutto con un sorriso e una pausa, trasformano ogni scena in qualcosa che non si recita: si vive. Rivederlo oggi significa ricordare che la grandezza non è nei numeri o nell’intelligenza, ma nella capacità di amare senza difese. Perché, come ci insegna Sean, la vita non è la partita che perdi, ma la persona che scegli di non lasciare andare.

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